E’ morto Dino Marianetti. Proprio ieri, alla Biblioteca della Camera, veniva presentata la sua autobiografia (“Io c’ero”, ed. Ornitorinco). Era malato da tempo, ma soffriva soprattutto della malinconia di cui non può non soffrire chi vede disperso un patrimonio che ha contribuito a creare. E Dino di quel patrimonio poteva legittimamente rivendicare una quota significativa.

Fu lui il primo, dopo il risultato umiliante nelle elezioni del 1976, ad avvertire la necessità di una svolta radicale nell’orientamento del Psi: e con Federico Coen, allora direttore della nostra rivista, organizzò quel convegno aperto dalla relazione magistrale di Norberto Bobbio che segnò, prima ancora del Midas, il risveglio di tante energie presenti nel sindacato e nel mondo della cultura, fino ad allora neglette dai vertici del partito e poi valorizzate dal “nuovo corso”, innanzitutto col Progetto socialista del 1978.

E fu ancora lui il primo a battersi, negli anni ’80, per preservare quel patrimonio da pratiche degenerative che cominciavano a diffondersi, specialmente nella periferia del partito. Ricordo ancora la passione con cui, da responsabile dell’organizzazione nella segreteria del Psi, si impegnò su quel progetto di “autoriforma” che poi fallì per la tenace resistenza dei cacicchi e per la scarsa lungimiranza dei vertici: un’occasione mancata che forse non ci avrebbe salvato dallo tsunami che ci travolse dieci anni dopo, ma che almeno ci avrebbe consentito di contenere le perdite.