A Milano ferve la polemica sulle palme (e i banani) in Piazza del Duomo. E le forze dell’ordine sprecano tempo e risorse per cercare il pericoloso attentatore del sacro palmizio. Noi ci limitiamo a riproporre ai lettori quello che scrisse il compianto Guigo Martinotti sulla nostra rivista quando a proporre il rimboschimento di Piazza del Duomo era stato Claudio Abbado e non Starbucks.

Non molto tempo fa il grande maestro Claudio Abbado, in visita a Milano, lanciò l’idea di subordinare il suo rientro alla Scala all’impegno da parte del Comune di piantare 90.000 alberi a Milano, città da sempre considerata brutta, sporca, inquinata e priva di verde, attribuzione, quest’ultima, del tutto falsa. Probabilmente il maestro Abbado la proposta dei 90.000 alberi l’ha fatta davvero come battuta. Una battuta musicale come quella che Haydn usava nella Sinfonia 94, Mit dem Paukenschlag, (“La Sorpresa”), con un improvviso colpo di timpano destinato a svegliare gli ascoltatori appisolati; ma la grancassa mediatica, con il sindaco in testa, non ha mancato l’occasione di accodarsi e anzi di ingigantire la battuta, andando, come spesso avviene in questi casi, anche fuori del rigo e promettendo il rimboschimento di Piazza del Duomo, pare con alberi di Carpinus betulus. Chissà con quale soddisfazione per lo spirito di Carlo Cattaneo che, da vivo, riteneva Piazza del Duomo eccessivamente grande, e si era opposto strenuamente all’ampliamento degli spazi attorno al sagrato, misurando di persona e con grande acribia le prospettive attorno al Duomo per dimostrare che davano il meglio se le case incombevano sulla cattedrale. Non tutti, pur nella massima riverenza e ammirazione per Abbado il musicista, furono d’accordo con la sua proposta architettonica: uno sparuto gruppo di autorevoli cittadini e di urbanisti si era subito dichiarato contrario perché non la riteneva coerente con il carattere della città, “austero e operoso”, scrisse Giorgio Armani. Ho condiviso queste perplessità, ma ricordo di essermi trovato di fronte alla ostilità di molti tra i miei amici più cari. La ragione del mio dissenso non era tanto una posizione aprioristicamente contraria al verde in città o in generale agli alberi, ma si basava su criteri economici e ambientali. Bisogna infatti considerare che oltre allo spazio occupato – che nel grande aggregato finisce per competere con quello occupato dalle persone – ogni albero in città: a) deve essere comperato e piantato; b) deve essere irrigato – con l’acqua dell’acquedotto; c) sporca e deve essere mantenuto – e protetto dalla pipì di cani e umani; d) deve essere irrorato contro gli insetti ed e) può anche provocare allergie agli umani, così che, nonostante le migliori intenzioni dei proponenti, è assai dubbio che il reale bilancio ambientale dell’albero in città sia ecologicamente positivo.

Riprendo l’episodio perché è un eccellente esempio di come il desiderio, del tutto condivisibile, di avere città più pulite e “sostenibili”, se si ferma alla superficie possa tradursi in quello che gli americani chiamano tokenism, cioè la finta carità che fanno i ricchi ai poveracci: mettere qualche pianta per affrontare le conseguenze di fenomeni di ben più ampia scala. L’ideologia, anche quella utopistica rivolta al bene, può indurre in errore se non si confronta con i dati di fatto. Che, in questo caso, come David Owen ci dimostra nel suo interessante lavoro, si riducono a una semplice affermazione, sostenuta peraltro da una lunga tradizione di studi: la città densa e costruita è molto più sostenibile, dal punto di vista ambientale, della campagna sparsamente abitata. Per cui dice Owen, “non si deve pensare di rendere la città più simile alla campagna rendendola meno densa, ma semmai il contrario”, il che non significa cementificare a casaccio, ma raggruppare la popolazione periurbana in poli con caratteristiche urbane, collegati da trasporti collettivi a basso impatto ambientale. La città deve essere urbana, cioè densa, compatta e ben costruita, con più persone (e meno automobili) che piante (o animali). Il verde (acqua permettendo) lo possiamo mettere nelle case o sui terrazzi o in grandi porzioni del tessuto metropolitano, dove viene irrigato e si mantiene spontaneamente. Il modello di questo tipo di insediamento, che imbriglia lo sviluppo periurbano entro ben definiti corridoi, combinando la densità e la crescita urbana con la qualità ambientale, in Europa lo troviamo nella Randstaat (Masser e altri,1993), ma il vero modello di città sostenibile è Manhattan, cui Owen dedica il lungo capitolo iniziale. Sarà opportuno spiegare meglio questo punto di vista, condiviso, ripeto, da gran parte degli studiosi delle scienze sociali, ma oggi appannato dal rincorrersi di numerose tendenze culturali, genericamente ambientalistiche, che si cumulano, mescolandovisi, a un antico pregiudizio antiurbano, capace di farsi sentire anche in una società con antiche tradizioni di civiltà urbana come la nostra.

Ma, diranno i lettori, come è possibile che sia più sostenibile la città superdensa, quella Manhattan che Buckminster Fuller aveva assimilato a un enorme radiatore con i grattacieli che disperdono nell’atmosfera calore ed energia? O la Manhattan che in una “mappa degli impatti ambientali negativi (negli Stati Uniti) figurerebbe come una intensa macchia rossa (hotspot) perché consuma più energia, produce più gas serra e rifiuti solidi di qualsiasi altra area americana di dimensioni comparabili”? New York City è più popolosa di 40 degli stati americani, con 67.000 persone per miglio quadrato (cioè ca 25.900 per kmq: Milano, per fare un paragone ne ha 6.592) cioè 800 volte la densità totale degli USA e circa trenta volte quella di Los Angeles; e consuma più di un miliardo di galloni di benzina al giorno (poco meno di 4 miliardi di litri). Tutte cifre prese qui e là dalle prime pagine del volume. Sono quantità enormi, ma, e qui sta il punto, vanno tradotte in termini procapite, perché è questo il dato che conta, visto che i consumi li fanno gli individui, dovunque essi siano, e l’aggregato totale si ottiene moltiplicando il consumo individuale per il numero di persone. E se i newyorkesi, come tutti gli altri abitanti delle metropoli, risultassero alla fine dei calcoli assai meno dissipatori, in media, degli abitanti delle aree non urbane?
La retorica antiurbana
Per ragionare chiaramente su tutta questa faccenda dobbiamo innanzitutto liberarci della retorica dell’antiurbanesimo che assume varie forme, anche indirette, e che sta alla base di molti dei luoghi comuni pseudo-ecologici. Owen fa una rassegna molto interessante e divertente di questa tradizione, soprattutto nel mondo anglosassone, che non riprenderò qui se non in piccola parte. L’ostilità di molti ambientalisti, scrive Owen, per le città densamente popolate, è la manifestazione di un fenomeno assai più ampio, una profonda antipatia per la vita urbana che è rimasta sin dall’inizio nel cuore degli ambientalisti. Henri Davis Thoreau che ha vissuto in una capanna nei boschi vicino a Concord, Massachusetts, tra il 1845 e il 1847, “ha costituito una immagine ancora potente oggi del sensibile amante della natura che vive semplicemente e in armonia con l’ambiente al di là del confine della civilizzazione”. Ma Thoreau non era affatto un pioniere dell’aria aperta e la sua capanna, dice Owen, era molto più vicina alla città di Concord che a un’area realmente selvatica (Thoreau nei suoi scritti fa spesso riferimento al suono delle voci dei sui concittadini). Tuttavia l’immagine di Thoreau e della sua capanna sulle rive di Liberty Pond è rimasta fortemente impressa nella cultura generale degli americani, innestandosi su posizioni tradizionali come quella di Thomas Jefferson, che nel 1803 definiva le grandi città come “pestifere per la morale, la salute e le libertà dell’uomo”. E – dice Owen- Jefferson stesso, andando a vivere in una grande casa di campagna a Monticello, con Thoreau e la sua capanna, forniscono potenti modelli al suburbanita di oggi che si raffigura la sua casa monofamiliare circondata da erba come un mini-Monticello. Owen ci spiega come gran parte dell’antiurbanesimo sia da legare alla raffigurazione delle città come luoghi malsani, e sulla credenza (riemersa durante le epidemie di febbre gialla e poi di colera rispettivamente del 1793 a Philadelphia e del 1832 a New York) del legame tra queste epidemie, di cui non si conosceva allora la causa batterica, e le condizioni igieniche, che sono state nella storia una delle maggiori ragioni della “malaria urbana”. La verità è che le condizioni igieniche delle città preindustriali o della prima industrializzazione erano ben lungi dall’essere ideali dovunque e non solo negli Stati Uniti. Il famoso incontro manzoniano che si tradusse poi nella rissa all’origine della conversione di Padre Cristoforo (“Fate largo vile meccanico”) richiama, ricordava sempre Luigi Firpo, la situazione delle vie di quelle città che era tale per cui il gentiluomo che cedeva la strada era spesso obbligato ad affondare a mezza gamba nella melma; mentre l’etichetta che fino a poco tempo fa imponeva al “cavaliere” di stare verso il marciapiede e alla “dama” di camminare invece rasentando il muro serviva a esporre l’uomo al gettito dei dejecta dai piani superiori. Harriet Martineau (1802-1876), la famosa scrittrice e viaggiatrice inglese, scriveva alla metà dell’ottocento che non poteva attraversare la centralissima rue Dauphine di Parigi senza rischiare i propri eleganti stivaletti in quella fogna a cielo aperto dove i macellai della via buttavano ossa e visceri degli animali. Ma ciò non è più vero oggi perché le città del mondo sviluppato (quelle dove abitano i critici dell’urbanesimo, per intenderci) hanno sistemi eccellenti di distribuzione dell’energia e dell’acqua e di raccolta dei rifiuti. Così efficienti in effetti che l’intera città entra in crisi anche per pochi giorni (o ore) di malfunzionamento. Le città devono essere soprattutto ben costruite: è l’architettura, non la natura (o la semplice cubatura, mi permetto di aggiungere) che ci vuole in città, dice Owen. Mario Fubini, il grande italianista, tutte le volte che doveva attraversare il cortile della Università Statale in via Festa del Perdono soffriva per il verde praticello di erba rasata messo lì nel mezzo del bel cortile del Filarete, disegnato per cavalli e carrozze, che lo disturbava profondamente, come una gardenia sul tight per la consegna dei premi Nobel. Mi è capitato di ascoltare Leonardo Benevolo che spiegava in modo convincente che il parco della Villa Reale di Monza era stato pensato a prato per permettere la vista delle montagne, oggi celate dalle piante di alto fusto che nessuno oserebbe proporre di togliere. Convincente, perché nel giardino della casa di mia madre è successa la stessa cosa: delle belle piante, piantate da noi urbanisti – lo so perché ho le foto storiche del luogo, che era coltivato a ortaggi senza una sola pianta d’alto fusto – sono cresciute e non vediamo più il Monte Rosa che vedevo ancora quando ero bambino. Per ottenere il permesso, non di abbattere, ma di recidere a due terzi un paio di pioppi piantati da mio padre perché vecchi e malati, è stata necessaria una pratica che si è conclusa con un voto specifico (ad personam, oserei dire, visto che il mio nome compariva nel verbale) del Consiglio Regionale del Piemonte. Lascio immaginare la sproporzione tra il bene difeso con burocratica ottusità (una qualsiasi guardia forestale che ne avesse avuto il potere avrebbe potuto risolvere la questione in pochi minuti) e i costi complessivi dell’operazione, compresi quelli del taglio a 2/3 che ha richiesto l’impiego di una costosissima macchina con un grande dispendio di energia: il tutto in una zona in cui i proprietari sono i primi ad aver interesse a preservare il verde e avendo per oggetto la pratica due o tre pioppi, un albero a rapida crescita, facilmente sostituibile. Il punto è che molte delle regole imposte in questo campo sono elaborate da persone che hanno una immagine ipostatizzata del verde e della campagna e non considerano che gli alberi, come le persone, crescono, invecchiano, si ammalano e anche muoiono. Da un punto di vista ecologico il verde e l’albero sono solo dei mezzi per contribuire alla bontà dell’aria, non possono diventare un fine.

La campagna postfordista
La retorica antiurbanistica con la corrispettiva idealizzazione delle “campagne” perde completamente di vista un punto essenziale conseguente alle grandi trasformazioni avvenute nel mondo urbano negli ultimi 30-50 anni circa, che hanno fatto sì che la campagna tradizionalmente intesa, con la sua vita dura che gli abitanti delle città oggi non riescono neppure a concepire, ma anche forse con i suoi pregi sociali (che sarebbero però da verificare non solo tramite le oleografie e le canzonette nostalgiche) è scomparsa, sostituita da un’altra forma insediativa che è caratterizzata da bassa densità, ma anche dalla diffusione di modi di vita urbani. Così, dal punto di vista ambientale, è assurdo confrontare l’abitante di Manhattan con il farmer più o meno autosufficiente che si nutriva del suo prodotto e, se necessario, si cuciva anche i vestiti usando i suoi scarti per concimare la terra. Oggi chi non abita in città ha esattamente gli stessi consumi di chi ci abita, ma se deve comperare le uova o, come dice Owen, cambiare il DVD da Blockbuster, prende l’auto e fa magari 10 chilometri per andare al più vicino supermarket, invece di scendere al negozio dietro l’angolo. E’ questa la differenza che fa sì che la città sia molto meno dissipativa delle regioni periurbane e rurali, ma questo particolare cruciale sfugge nella comune conoscenza a causa di una distorsione profondamente radicata nell’immaginario collettivo. “I cittadini vorrebbero trovare nel paesaggio il prodotto di una società rurale che vive in armonia con se stessa e con la natura, immutabile e per sempre congelata in una mitica Età dell’Oro”, scrive Staffan Helmfrid in uno splendido saggio che non mi stanco di citare.

Nell’ultimo quarto del XX secolo le metropoli di tutto il mondo sono state investite da una molteplicità di processi di carattere molto generale, nel senso che sono in corso più o meno in tutto il mondo sviluppato (e per molti aspetti anche altrove), anche se ovviamente vengono reinterpretati in modo specifico in ciascuna realtà urbana distinta secondo le caratteristiche locali. In sintesi si tratta, in primo luogo, di trasformazioni nella morfologia fisica della città, legate fondamentalmente alla cosiddetta “postfordizzazione del territorio” che ha però importanti conseguenze anche sulla morfologia sociale: da un lato proiettando al di fuori dei confini comunali, su una vasta area “sconfinata”, gran parte della popolazione attiva (giovani, coniugati, con figli), e dall’altro esercitando una forte pressione ecologica (consumo energetico, inquinamento, erosione del suolo) nell’area periurbana o dello sprawl. In secondo luogo si tratta poi delle trasformazioni economiche avvenute con il passaggio da una economia prevalentemente manifatturiera a una prevalentemente di servizi, che si traduce in una marcata mercificazione dei luoghi e nella rapida crescita di NRP’s (Non Resident Populations), a scapito degli abitanti o residenti. E, da ultimo, della diffusione di tecnologie per la comunicazione e l’informazione che mutano in profondità i processi di formazione dell’opinione pubblica e del consenso togliendo fisicità all’ Öffentlichkeit o spazio pubblico, e privatizzando e individualizzando i recettori di informazione: dall’agorà al tinello. Quindi non sono le città che hanno bisogno di piante, ma quell’area che si è estesa come una lebbra nelle aree rurali per far fare soldi agli industriali del mattone, del petrolio e dell’informazione. Sono infatti l’auto privata a costi stracciati, l’energia e le tecnologie dell’informazione che, combinandosi, hanno permesso a milioni di persone di trasferirsi lontano dalle città in una simil-campagna devastata dal mattone e dall’asfalto. Oggi gran parte delle persone (in Francia dal 2001 la maggioranza della popolazione) vive non in città ma in queste aree dissipative, dove peraltro vive anche Owen che ne dà una elaborata giustificazione a cui rinvio il lettore.

Possiamo avere una misura efficace di cosa stiamo concretamene parlando, al di là dei termini evocativi con i quali la letteratura scientifica, non meno di quella giornalistica, cerca di descrivere un fenomeno nuovo e per certi aspetti sfuggente, ricorrendo a un solido metro comparativo, o benchmark che dir si voglia. Infatti nel 1938 Louis F. Wirth, uno dei maggiori sociologi urbani del tempo (e in generale) scrisse un articolo dal titolo Urbanism as a way of life (Wirth, 1938) che rapidamente divenne il verbo sia negli studi sulla città sia nelle pratiche di architettura e urbanistica. In questo articolo Wirth in tre variabili (grandezza, densità ed eterogeneità), dava una elegante definizione della città che per molto tempo nessuno riuscì a sostituire con una diversa altrettanto incisiva. Oggi nessuno di questi criteri può più essere applicato banalmente per definire l’urbanità. Le dimensioni del fenomeno urbano, naturalmente, costituiscono ancora un fattore ineliminabile; le città continuano a essere luoghi popolosi, ma le unità fisiche su cui misuriamo questa grandezza sfuggono a una precisa identificazione. Regioni Urbane Funzionali – FUR, Daily Urban Systems, DUS; Standard Metropolitan Areas, SMAs; Mega Urban Regions, MURs, Edge cities, “Terre sconfinate”, “Meta-città” e così via, sono tutti nomi che si riferiscono a entità dai confini discutibili, tanto che quando vengono proposte delle classifiche di città mondiali in base alla loro dimensione, non si sa bene quale sia l’entità classificata, per non parlare del problema di quale sia la popolazione cui si riferiscono le cifre. Per fare un esempio italiano, Milano è oggi un comune con una popolazione eguale o leggermente inferiore a quella che aveva all’inizio della II Guerra Mondiale. Ma gran parte della popolazione giovane e delle attività della città si sono spostate in un’area assai ampia dai confini incerti. Di conseguenza anche la densità è una misura che ha perso di significato, non solo per la ovvia ragione tecnica che se non si conosce la superficie non si può misurare la densità, ma anche perché l’uso dei trasporti individuali ha permesso di distribuire gli stili di vita urbani su un’area molto grande, mentre le tecnologie della comunicazione permettono di sostenere questi stili anche senza la propinquità: la densità metropolitana degli Stati Uniti nel 1985 era di 121,69 persone per kmq (Martinotti, 1993 p.73 n.28) inferiore alla densità totale dell’Italia di 168 ab kmq (ivi p.217).
L’eterogeneità continua senza dubbio a essere una caratteristica importante delle popolazioni urbane e per certi aspetti continua a caratterizzare la città: è vero, ma il tipo di eterogeneità che si trova oggi è ben lontano da quella densità gomito a gomito dei melting pots delle metropoli weberiane, simmelliane o della scuola di Chicago, o anche delle città europee della transizione tra medioevo e società moderna (Boeri e Lanzani,1993). Anzi, negli Stati Uniti, partendo da una tradizione forte di autonomia localistica, si è sviluppata una forma di privatizzazione del territorio periurbano che di fatto segrega le persone in comunità contrattualizzate con stretti obblighi di conformità a stili di vita e a modelli vincolanti di comportamento. Questa tradizione che, nelle sue forme estreme sfocia nelle gated communities, è molto estesa negli Stati Uniti, ma non ha preso piede in Europa continentale, dove il periurbano è ancora fortemente sottoposto al controllo delle amministrazioni pubbliche (Beito David T. et al. 2005; Brunetta e Moroni, 2008). Dovunque però le famiglie della meta-città tendono a vivere in comunità sempre più separate tra di loro in termini di classe, età, etnia, un fenomeno che secondo Bob Beauregard ha originariamente cambiato il volto non solo alla metropoli, ma anche alla intera società americana (Beauregard, 2006).
Quanto consuma il Vermont
Il libro di Owen, come molta letteratura americana di popular science o di giornalismo colto, è scritto con un linguaggio facile e riccamente aneddotico, che personalmente trovo gradevole, anche se talvolta rischia di scivolare nella sciatteria (soprattutto nella traduzione in una lingua come quella italiana che non ha molta predisposizione a trattare lo stile conversativo), ma tratta di un problema molto serio, che la cultura italiana è ben lontana dall’aver affrontato con la dovuta attenzione. Mentre le grandi trasformazioni urbane investivano la società italiana con diverse successive ondate, nel grande ciclo di espansione capitalistica del secondo dopoguerra, fino alla crisi globale del primo decennio del XXI secolo – i cicli intermedi hanno introdotto pause e distorsioni, ma l’espansione urbana non si è mai arrestata – la cultura pubblica del paese ha interpretato le trasformazioni in corso usando vecchi modelli di origine tardo-romantica sostanzialmente riferibili alla coppia toennesiana di Gemeinschaft (Comunità) vs Gesellschaft (Società), elaborata per i fenomeni di trasformazione sociale e territoriale di un secolo prima. Forse il dott. Konrad Adenauer, sindaco di Colonia negli anni venti, riflettendo un sentimento molto forte e molto diffuso nel mondo tedesco, tanto da essere poi sfruttato dal nazismo, poteva ancora dire sconsolato “Noi siamo la prima generazione di tedeschi ad aver realmente vissuto la vita delle metropoli. Il risultato lo conoscete tutti” (Mitscherlisch, 1968, p. 21); ma oggi la critica alla città, dal punto di vista di una supposta migliore vita comunitaria altrove, non è più così facilmente sostenibile, anche perché abbiamo visto come le ideologie autoritarie, con le politiche antiurbane e la retorica ruralista del fascismo, le mitologie naziste delle origini, le politiche antinurbamento di Unione Sovietica e Cina fino ad arrivare al luddismo parossistico antiurbano di Pol Pot, hanno dato ben povera prova storica nel XX secolo. Ma Owen ci spiega anche gli errori fattuali della ideologia antiurbana.

Il Vermont con la sua sopravvissuta ruralità viene sovente contrapposto nell’immaginario collettivo, alla terribile Manhattan, ma il fatto è che in termini di costo ambientale complessivo Vermont è l’undicesimo stato americano, mentre New York, proprio solo grazie al peso di New York City, è lo stato meno dissipativo dei 50 dell’Unione (p.14). L’abitante del Vermont consuma molta più acqua del newyorkese, consuma 542 galloni di benzina l’anno a testa (circa 2000 litri) contro 146 per i residenti di NYC e appena 90 per quelli di Manhattan, e consuma quattro volte tanto di energia elettrica lasciando sul pianeta una carbon footprint molto maggiore di quello dei newyorkesi. Non è difficile immaginare che seguendo premesse erronee si possano poi proporre rimedi inefficaci o non applicabili, nel migliore dei casi. Owen cita il PlaNYC proposto in occasione dell’Earth Day 2007 che tra le altre cose (pp.15 sgg) prometteva di piantare più di un milione di alberi (qui fanno le cose in grande, ma ovviamente è New York, non Milano), di far pagare una tassa ai veicoli che usavano le arterie più trafficate (congestion pricing), e di imporre una tariffa aggiuntiva sulle bollette elettriche. La tassa sulla congestione è stata cancellata in occasione dell’Earth Day dell’anno successivo, e per quanto riguarda le bollette elettriche si è scoperto che il consumo procapite dei newyorkesi era già di molto inferiore alla media dei residenti di altre parti del paese. Il consumo procapite dei residenti di New York è di 4.696 kwh all’anno per ogni famiglia, ma Dallas, città estesa, ne consuma 16,116, quasi quattro volte tanto. E Owen commenta che cercare di imporre riduzioni a consumi già molto bassi “è come cercare di combattere l’obesità mettendo a dieta i magri”. Anche il rapporto pubblicato dal Comune di New York che denunciava che gli edifici di New York contribuiscono per il 79% alla carbon footprint della città è un dato fuorviante, spiega Owen, perché questa percentuale eccezionalmente elevata (la media nazionale è circa il 32%) è in realtà dovuta alla bassa incidenza sul totale del gas emesso dai veicoli privati che costituisce la voce di maggior rilievo nella più parte delle altre situazioni (p.16). E per quanto riguarda il milione di alberi non se ne è più parlato, ma Owen non se ne duole perché pensa che gli alberi nelle aree urbane vadano eventualmente apprezzati perché sono belli e aiutano a frenare la fuga degli abitanti, non per la ragione normalmente addotta, e cioè che aiutano a migliorare l’aria, affermazione che andrebbe presa a calcoli fatti. Nikita Krusciov, che visitò New York nel 1960 in occasione dell’assemblea dell’ONU, trovò la mancanza di verde a New York molto deprimente, “tanto da far intristire una pietra” (p.11), ma Owen teme che molti discorsi “ecologisti”che tendono a far sentire in colpa i cittadini possano contribuire a spingerli verso i sobborghi, producendo un risultato antiecologico.
Governare le aree metropolitane
Come si vede si tratta in ogni caso di questioni che vanno affrontate con molta cura e senza cedere alle tentazioni mediatiche o ai preconcetti ideologici. Purtroppo particolarmente grave è stata, nel nostro paese, la incomprensione dei processi in corso negli ultimi decenni del XX secolo, quando attorno a tutte le città italiane si è formato il vasto sprawl che ha risucchiato persone e rapporti sociali sia dall’esterno sia dai centri tradizionali, e che la cultura pubblica italiana ha interpretato, grazie anche all’acritica accettazione di modelli tardo-romantici, come un assolutamente improbabile ritorno alla campagna delle famose lucciole di Pasolini (che non sono mai scomparse) e dei Rio Bo che qualche eminente politico recita ai suoi ospiti incantati.
Per scendere nel concreto basterà ricordare che, dopo cinquanta anni di discussioni (possiamo fissare l’inizio del dibattito pubblico sul tema dell’area metropolitana al Congresso di Limbiate del 1957, in cui si dette il via al PIM, Piano Intercomunale Milanese), due ampie leggi di riforma amministrativa che imponevano la creazione di governi metropolitani, una riforma costituzionale che va nello stesso senso, finalmente si è arrivati a far coincidere il governo metropolitano con la provincia: affidando cioè la regolazione della forma più recente di insediamento alla circoscrizione amministrativa più obsoleta e discussa del paese. Vero monumentum insaniae saeculi xxi, per riprendere una celebre definizione.
Nel frattempo la metropoli si è evoluta dalla prima generazione dei pendolari alla seconda generazione dei consumatori, e infine alla meta-città dei corridoi urbani europei, mentre ancora si vagheggia, nella immaginazione mediatica ma non solo, di mulini bianchi e amari del veterinario. Ma oggi occorre davvero liberarsi di queste sovrastrutture ideologiche per cercare di intervenire a ragion veduta sulla “città-oltre”, e “riconsiderare il problema del rapporto città-campagna e delle aree urbanizzate-rurali in una visione più ampia e strategica” (Per un’altra campagna, 2009, p.5), perché il problema del verde in una città come Milano non si risolve certo con pochi alberi piantati qui e là nel centro, ma con una “agricoltura periurbana di qualità”, cosa del tutto possibile in questa città, che ha almeno tanto territorio disponibile da infilarci un’altra Parigi. Basterebbe che le classi dirigenti milanesi riuscissero a emergere dalla loro scatola navigliocentrica, che minaccia di dissipare il vero patrimonio verde della città in nuova cubatura, e che si convincessero che i problemi ambientali di Milano (e neppure quelli delle altre città della famosa Padania) non si possono assolutamente risolvere nella cerchia dei Navigli.
Più di dieci anni fa, pubblicando i lavori del gruppo di lavoro del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, avevo cercato di rompere le tradizionali categorie dell’analisi urbana, mettendo in apertura della raccolta un saggio sulla campagna del geografo svedese Staffan Helmfrid (Martinotti, 1999). Oggi sono più che mai convinto, e il libro di Owen, ce lo conferma, che i problemi ambientali di Milano non si risolvono con i Carpinus Betulus in Piazza del Duomo (se a qualcuno piacciono – a me no – si mettano pure, ma è un fatto estetico, e non lo si contrabbandi per operazione ecologica), ma si risolvono con il buon uso delle aree rurali attorno alla città, con la ridensificazione della popolazione in poli ben organizzati, e con la conseguente riorganizzazione dei trasporti collettivi a basso impatto ambientale nella regione. Si può fare (Casiroli, 2009): basta convincersi che oggi la parola d’ordine per le politiche urbane deve essere qualità sociale invece di crescita incontrollata. Non illudiamoci che la regolazione delle aree periurbane sia un problema unicamente locale per tecnici urbanistici: la forma degli insediamenti è un problema centrale della polity, della comunità politica nel suo complesso.
L’invenzione del “territorio”
Come è avvenuto con la suburbanizzazione negli Stati Uniti (Beauregard, 2006) e la formazione del periurbain francese (Martinotti, 2006; Lagrange e Oberti, 2006), nonché in numerose altre parti del mondo, la trasformazione morfologica della città-oltre, o meta-città, è connessa con mutamenti sistemici complessivi nella struttura sociale e nei rapporti politici. Nel caso italiano si è verificata una deriva localistica che ha sopravvalutato e persino mitizzato la comunità locale inventandosi il “territorio”, termine la cui ambiguità analitica è tanto evidente da un punto di vista teorico, quanto potente è la sua confusa evocatività nel linguaggio pubblico. Infatti si parla indifferentemente, e direi a casaccio, di “territorio” come area fisica (“la pianificazione territoriale”, consultare vastissima bibliografia), come unità politica decentrata (“il territorio pugliese”, Poli-Bortone, Tribuna politica, 9 Marzo 2010), come società civile locale indistinta (“occorre ascoltare il territorio”: qualsiasi candidato promette di farlo).
La lingua italiana è molto tollerante degli abusi, ma oltre un certo punto si vendica trasformando il pensiero e le sue capacità di comprensione in quella babele gelatinosa che è diventato il linguaggio pubblico italiano, tanto più quando si parla di ambiente, costruito o meno. E quando invece di saper cogliere e controllare il nuovo lo si nasconde dietro a vaghe reminiscenze di un passato che la più parte degli italiani di oggi ha vissuto solo nelle canzonette (“C’è una chiesetta amor, nascosta in mezzo ai fior”). Queste dinamiche fanno parte di un più generale processo di sottrazione della modernità dall’orizzonte di speranze degli italiani. Oggi anche il territorio si vendica, con le mafie locali ad aspirazione nazionale ed europea, con l’inefficienza assoluta della capacità di regolazione ambientale a livello locale, con la proposta di riesumare i dialetti (che peraltro, in modo barbaro e degradato, sono già entrati nel linguaggio mediatico), e con tutte le tendenze antiunitarie che stanno esplodendo in diverse direzioni.
Alla funzione fondamentale di uno Stato unitario che dovrebbe accompagnare le competenze locali per soddisfare nel modo migliore le relative esigenze, si è sostituita una malintesa sussidiarietà all’italiana per cui la funzione pubblica, progressivamente depauperata, dovrebbe intervenire solo in sostituzione di evidenti deficienze. Che è un po’ come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, e occorre anche sostenere i costi dell’andare a cercarli. Al supposto paternalismo bonario dello stato sociale, si è sostituito il paternalismo autoritario della sussidiarietà rimediale. Forse in nessun campo come in quello ambientale e del governo degli spazi periurbani questo fenomeno appare in tutta la sua drammatica incapacità di produrre sostenibilità ambientale e sociale. L’indebolimento e la distruzione di tecnostrutture capaci di impedire i disastri ha dato luogo alla creazione di macchine tendenzialmente verticistiche e autoritarie: piuttosto che cercare di prevenire ci si è abbandonati agli imperativi dell’emergenza (si noti lo scivolamento impercettibile, ma stravolgente, da “prevenzione”, che deve essere inevitabilmente realizzata con il concorso di tutti, a “protezione”, una attività che cala immancabilmente dall’alto). E’ completamente sfuggito alla cultura pubblica del momento l’insegnamento di Amartya Sen sulla maggiore efficienza dell’organizzazione democratica nei confronti di quella autoritaria nel prevenire crisi come epidemie o carestie; oppure l’insegnamento di Robert Putnam sull’importanza del capitale sociale, che va formato e mantenuto, non dissipato, sia pure solo con la retorica.
Credo che la conoscenza del libro di Owen possa essere una buona guida alla lettura dei molti e drammatici eventi che stanno interessando il nostro paese in questo momento. Per esempio la vicenda del terremoto dell’Aquila con una ricostruzione che ha imposto una corona suburbana di abitazioni sul modello non delle New Towns inglesi (come viene detto con rozza improprietà), ma di una versione povera (però non a poco prezzo) della single family home americana, mentre il grosso della popolazione con le chiavi delle proprie abitazioni e con le carriole richiede disperatamente la ricostruzione della città-città; gli smottamenti di terreno su cui erano state costruite abitazioni autorizzate da amministrazioni non in grado di fermare l’espansione del periurbano, neppure in aree a elevato rischio; il conflitto tra l’alta velocità e reti locali degradate al punto da incoraggiare invece che scoraggiare l’uso dissipativo dell’automobile; il problema dei rifiuti a Napoli (ma non solo a Napoli) momentaneamente messo sotto il tappeto; e via dicendo, per un elenco che potrebbe essere molto lungo. Quasi nessuno di questi problemi si può risolvere a un livello puramente locale: nessuno però può essere risolto da una autorità verticalizzata senza cooperazione locale. Forse occorre ripensare a fondo la filosofia dell’interesse comune per cercare di regolare le condizioni ambientali nelle vaste aree dove la campagna si indurisce nella città.

Riferimenti

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