C’è stato un plauso generale dei mercati e della politica europea (con gli scontati mugugni della Germania della Merkel) nei confronti delle misure decise dalla Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Ribasso del tasso della Bce allo 0,15% nuovo minimo storico dal precedente 0,25%, assieme ad interventi per rilanciare il credito, fra cui nuove aste a lungo termine e “operazioni preparatorie per acquistare gli Abs”, cioè titoli garantiti a sostegno delle imprese. Basterà? C’è da temere di no, visto che in ogni caso, rimane inevasa l’esigenza di trasformare la Bce in prestatore di ultima istanza.
Il tema è infatti quello della sovranità monetaria: cancellata quella degli Stati membri dell’Unione, bisognava prioritariamente conferirla all’Europa, attribuendoalla Bce gli stessi poteri avuti in precedenza dagli istituti nazionali di emissione. D’altronde la perdita di sovranità statuale in materia monetaria è avvenuta progressivamente, con l’attribuzione ad organismi transnazionali di funzioni preordinate a quelle degli Stati.
Prima degli accordi di Bretton Woods del 1944 le banche degli Stati dovevano avere una quantità di oro nei loro forzieri pari al denaro che stampavano. Succedeva però che esse stampavano più denaro rispetto al controvalore in oro che possedevano. Perciò nel 1944 si decise che solamente il dollaro dovesse avere la convertibilità in oro, e le altre monete potessero essere scambiate con il dollaro che faceva da garante. Sotto la presidenza Nixon, il 15 agosto 1971, gli Stati Uniti abolirono il cosiddetto “Gold standard”, la convertibilità del dollaro con l’oro, imponendo il biglietto verde americano quale valuta di riserva a livello degli organismi sovranazionali, come il Fondo Monetario.
Nel 1971 In Italia il debito pubblico era di 16 miliardi e 145 milioni di euro: ma quel debito, nella realtà, non esisteva, in quanto la Banca d’Italia era, come previsto dall’articolo 3 del suo pregresso statuto, un ente di diritto pubblico di emanazione statale, e aveva titolo per stampare moneta senza limiti, a garanzia del debito sovrano.
Nel 1983 il Ministro del Tesoro dell’epoca (il democristiano Andreatta, vicino ad alcuni ambienti della grande finanza internazionale ed italiana). ed il governatore della Banca d’Italia in carica (il futuro premier “tecnico” e presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi) abolirono gli obblighi di Bankitalia circa l’acquisto dei titoli pubblici emessi ed invenduti sui mercati, inibendo quindi al nostro istituto di emissione di finanziare il debito pubblico, che passò così in soli dieci anni da 142 miliardi (dai 16 miliardi del 1971, perché lo Stato finanziava la crescita attraverso l’emissione dei titoli) a ben 850 miliardi.
Nel 1992, con la legge 35, il disegno di conferimento di fatto della Banca d’Italia al mercato si compie del tutto: con la cessione decisa dal governo di allora (ministro del Tesoro Guido Carli, già governatore della nostra banca centrale ed ex presidente di Confindustria) a banche ed enti privati delle quote di via Nazionale; guarda caso, ma non troppo, siamo già nell’era degli Accordi di Maastricht.
Nel dicembre 2006 l’ultimo atto: il governo in carica, guidato da Romano Prodi, formalizza la privatizzazione di Bankitalia, con la sua trasformazione in società di capitali, in maggioranza detenuti da banche private, alcune delle quali frutto della “svendita” dei grandi istituti di credito pubblico (e delle partecipazioni statali) come la Comit.
Il risultato è che il debito sovrano dell’Italia ha superato i 2040 miliardi di euro, e l’assenza di sovranità in materia di moneta ha fatto sì che l’euro – valuta stampata dalla Bce non in funzione delle esigenze dei cittadini europei ma della politica economica rigorista tedesca – vada a finanziare le grandi banche commerciali private che poi prestano agli Stati ad altissimi interessi, generando nuovo debito pubblico che (si veda il caso della Grecia) è nei fatti inesigibile.
L’ultimo colpo di maglio alla sovranità economica dei singoli Stati europei è venuto, dal 2012, col Fiscal Compact e col Mes, il cosiddetto “Fondo salva Stati”, che potrebbe produrre l’esproprio per l’Italia della residua quota di beni pubblici, ivi compresi quelli demaniali e artistici. Ecco perché in Europa i movimenti nazionalistici hanno avuto successo alle ultime elezioni, e perchè conseguentemente, si impone una radicale revisione delle politiche economiche dell’Unione.
Proprio nel 1944 a Bretton Woods John Maynard Keynes – che come è noto non è stato un economista sostenitore della pianificazione collettivista ma di ispirazione liberaldemocratica – sostenne il modello del bancor, una moneta unica internazionale. Tale modello non venne adottato proprio per il prevalere del “Gold standard”. In Europa potrebbe consentirci di uscire dalla crisi il ritorno a monete nazionali vincolate tra di loro da un European Clearing Union, cioè una camera di compensazione per le transazioni europee (prodotti, servizi e anche investimenti), in grado di agire sui paesi con forti surplus o con deficit strutturali.
Ma forse la Germania preferisce comunque la fine dell’Unione europea pur di non intaccare i dogmi del rigore e del monetarismo.