“Il Sole 24 Ore” celebra ricorrentemente il famoso poema di Bernard de Mandeville: tempo addietro l’ha fatto pubblicando un articolo di Jean Petitot sulle virtù autorganizzative del libero mercato; quest’anno con due articoli pubblicati nel “Domenicale” del 2 febbraio scorso. Entrambi gli articoli affrontano la tesi satirica del medico olandese, secondo però due approcci diversi.
Com’è noto, Mandeville, medico e filosofo vissuto in Inghilterra a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo, ha scritto la celebre opera “La favola delle api”; questa, che risente delle idee liberali che si stavano affermando in Europa, formula una tesi che consiste in una critica alla società bigotta, ipocrita e chiusa ereditata dal passato, e che stava per essere sostituita da un nuovo tipo di società: quella dello sviluppo industriale. Una società che voleva accreditarsi a livello di spazio pubblico come società virtuosa, nascondendo i propri vizi: i quali, paradossalmente, in quanto intrinseci alla natura umana, sono però necessari per assicurare il benessere sociale.
In uno degli articoli, quello di Felix Martin, che è un brano tratto dal suo libro recente “Denaro. La storia vera: quello che il capitalismo non ha capito”, si sostiene che il medico olandese con la sua opera ha voluto dare slancio al lento lievitare delle idee che hanno sorretto la rivoluzione industriale e la contemporanea rivoluzione finanziaria concretizzatasi con la definitiva affermazione del sistema bancario; la tesi mandevilliana, secondo Martin, è stata sussunta da Adam Smith nella prima teoria economica sistematica, nella quale il comportamento individuale è stato correlato all’organizzazione dell’economia, pervenendo così da un lato ad una “giustificazione esauriente della società monetaria in termini sia economici che politici”, e dall’altro ad una “concezione corretta del denaro”; questo, con l’affermazione dello Stato di diritto, ha potuto raggiungere la “sua apoteosi”, che si è potuta conservare grazie ad un funzionamento standard dei mercati indotto dai comportamenti dei singoli soggetti in essi operanti, intesi come aggregati di passioni e di emozioni disorganizzate e incorreggibili.
Nell’altro articolo Nicla Vassallo, filosofa del linguaggio, sostiene che la tesi secondo cui una società economicamente fiorente dipende dai vizi privati generati dall’egoismo individuale presuppone una distinzione tra punto di vista “descrittivo” e punto di vista “normativo”: cosa che i liberisti “duri e puri” hanno sempre mancato, contraddittoriamente, di accettare. Infatti, secondo la Vassallo, quando si interpreta la tesi di Mandeville nel senso che ogni individuo mira principalmente al proprio benessere si assume un’interpretazione descrittiva; mentre quando la stessa tesi si interpreta sul piano normativo si assume che un’azione è eticamente giusta se, e solo se, massimizza il proprio interesse personale.
Poiché l’interpretazione della tesi mandevilliana in senso descrittivo può essere testata e avallata dalle scienze sociali, occorre fare riferimento ad esse per sapere se Mandeville abbia ragione o torto; ne consegue che l’interpretazione in senso normativo della tesi del medico olandese non può avere, proprio per la sua natura valoriale, alcun supporto scientifico, con buona pace dei liberisti “duri e puri” che invece la vorrebbero come interpretazione acriticamente accettata.
E’ stata proprio l’interpretazione normativa della tesi di Mandeville a dare celebrità alla “Favola delle api”: queste, secondo il racconto, lavorano a produrre tutto ciò che serve alla prosperità di cui gode la loro società in un sistema in cui compaiono disparità sociali di ogni sorta. Ma il popolo delle api, non rendendosi conto di vivere nel migliore dei modi possibili, comincia a lagnarsi delle ingiustizie; una volta che con una rivoluzione queste sono eliminate, accade che le api vedano peggiorare le loro condizioni: e non volendo più vivere in un alveare dove viene riproposta l’ingiustizia, non rimane loro altro che accontentarsi della felicità che possono trarre dalla consapevolezza della loro onestà.
Le vicende dell’alveare scontento colgono con precisione le contraddizioni esistenti tra valori etici (generosità, altruismo e disinteresse personale) e quelli del nascente “spirito del capitalismo” (desiderio di acquisizione e accumulazione, egoismo e interesse personale). Ciò nonostante con l’età moderna si è affermata ed è stata acriticamente accettata la credenza che la società, il mercato, la cultura, e in generale ogni tipo di istituzione pubblica, non siano il prodotto di deliberate costruzioni umane, sebbene il messaggio della tesi mandevilliana non fosse di tipo normativo; ciò perché i singoli soggetti possono trovare soluzioni di reciproco vantaggio e di mutua soddisfazione con l’attenuazione delle loro pulsioni egoistiche. Cosicché le pubbliche virtù di cui una società capitalistica può farsi vanto possono anche originare da vizi privati, che è però possibile correggere con costruzioni istituzionali progettate ed attuate dall’uomo. Le scienze sociali moderne, infatti, hanno mostrato che le “malformazioni” umane, per quanto connaturate alla condizione naturale degli uomini, possono essere affievolite o del tutto rimosse attraverso una ”ingegneria istituzionale” condivisa.
Dopo l’avvento della società industriale non è stato necessario avanzare delle critiche anticapitaliste per intuire come fosse possibile sviluppare idee diverse da quelle liberiste, e quindi immaginare e promuovere forme di organizzazione del sistema sociale al cui interno potessero funzionare liberi sistemi economici caratterizzati da una prospettiva di abbondanza per tutti, invece che soltanto per alcuni (pochi) e di povertà o di permanente stato di bisogno per gli altri (molti).
Lo sviluppo delle scienze sociali, ed in particolare della scienza economica, hanno svolto un ruolo importante ai fini della costruzione di un mondo in grado di concorrere realmente a riscattare l’umanità dallo stato di una generalizzata ingiustizia sociale.Il desiderio di mettere l’uomo nella condizione di migliorare il proprio destino è stata, come ha sostenuto Alfred Marshall, la “molla principale di quasi tutti gli studi economici”.
Molti economisti del suo tempo, ispirati dai grandi progressi delle scienze naturali, hanno incominciato a forgiare strumenti di analisi con cui si è pensato di poter realizzare un ”ingegnosissimo e potentissimo meccanismo sociale”, cioè l’organizzazione di un libero sistema economico inquadrato all’interno di un libero sistema politico, finalizzati entrambi, sia pure in prospettiva, a migliorare le condizioni di vita di tutti gli uomini.
Restava tuttavia un problema irrisolto, che John Maynard Keynes ha successivamente designato come “il problema politico dell’umanità”, riguardante il modo in cui combinare l’aumentata capacità produttiva, la giustizia sociale e la libertà individuale. Anche per la soluzione di questo problema non è mancato il contributo del pensiero economico, con l’elaborazione delle modalità utili a dare corpo all’idea di una giustizia sociale realizzata nel rispetto dei principi di efficienza produttiva e di libertà individuale. Quest’idea, prospettata e teorizzata inizialmente in termini potenziali, si è diffusa in tutto il mondo, fino ad avviare un processo che ha iniziato a trasformare i sistemi sociali di tutto il pianeta in sistemi all’interno dei quali risulti “più conveniente vivere”.