Marino Regini, professore di scienze sociali e politiche all’Università degli Studi di Milano, sul numero 1/2014 di “Stato e mercato”, la rivista che ha per obiettivo la messa in luce dei punti di forza e di debolezza dei diversi modelli di organizzazione economica e sociale, ha pubblicato un saggio nel quale illustra i motivi delle difficoltà che si oppongono al superamento della crisi economica di cui soffre la maggioranza delle economie di mercato. Secondo Regini per capire il perché della persistenza di queste difficoltà, occorre riflettere su ciò che ha caratterizzato l’evoluzione delle economie di mercato nel periodo che va dalla Grande Crisi del 1929, e dalla susseguente Grande Depressione, sino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso.

Nei decenni precedenti il 1929 il funzionamento delle economie capitaliste era stato caratterizzato da una generalizzata deregolazione del mercato, accompagnata da ritmi di crescita mai sperimentati nel passato; tuttavia gli “animal spirits” che hanno potuto esprimersi al massimo livello possibile grazie al “laissez-faire” hanno concorso a creare uno stato di “anarchia” dei mercati, al punto da determinare il frequente susseguirsi di crisi economiche, che hanno raggiunto il loro apice in quella del 1929. Dall’inizio degli anni Trenta è apparso chiaro che il processo di crescita delle economie capitaliste, “governato” da un mercato senza regole, poteva proseguire alternando fasi di espansione con fasi di recessione, indotte queste ultime dal crollo del livello dei consumi.

Gli economisti neoclassici, però, lungi dal riflettere sul come impedire o affievolire gli effetti negativi dell’evoluzione ciclica delle economie di mercato, hanno orientato le energie alla ricerca di una loro giustificazione. Per quegli economisti, infatti, la ciclicità dell’evoluzione dei sistemi capitalisti era da considerarsi un fenomeno fisiologico positivo: nel senso che i periodi di recessione servivano ad eliminare, con l’espulsione dal mercato delle attività produttive marginali, i “difetti” ereditati dai periodi di espansione precedenti. Gli economisti neoclassici, in tal modo, potevano sostenere che con il manifestarsi delle recessioni venivano create le condizioni per una nuova fase di crescita, attraverso un incremento della concentrazione delle attività produttive e del loro livello di efficienza; o, tutt’al più, criticamente, essi osservavano che al libero mercato occorreva assicurare la capacità di un maggior coordinamento delle decisioni individuali.

Al pensiero degli economisti neoclassici si contrapponeva, principalmente, la critica marxista, secondo cui la natura ciclica delle crisi denunciava una contraddizione esiziale interna al modo di funzionare delle economie capitaliste; queste erano sì in grado di perseguire una crescita economica sostenuta, ma al prezzo di una larga distruzione di benessere sociale, con il crollo della produzione, l’aumento della disoccupazione, la diffusione della povertà e l’aggravamento degli stati di bisogno. Quindi per entrambe le linee di pensiero, quella neoclassica e quella marxista, la causa della ciclicità dell’evoluzione dei sistemi economici era comunque individuata nella ”anarchia del mercato”. Questa constatazione metteva in crisi l’assunto smithiano della “mano invisibile”, intrinseca al mercato senza regole che aveva indotto il sostenuto sviluppo delle economie capitaliste degli ultimi due secoli; in definitiva l’assunto veniva considerato inidoneo ad impedire il susseguirsi delle fasi di crisi caratterizzanti il processo di crescita, sia sul piano economico, che su quello sociale.

Le critiche formulate contro il mercato senza regole hanno perciò indotto gli economisti a considerare la Grande Depressione come esito del “fallimento del mercato”, implicante la necessità di una qualche forma di intervento pubblico, con lo Stato nel ruolo di “timido” regolatore (per la critica neoclassica), o in quello di dominus assoluto dell’economia e della società (per la critica marxista): all’interno delle economie di mercato questo ruolo ha assunto la sua massima espressione attraverso l’impiego di nuovi strumenti di politica economica, derivati dalla teoria di John Maynard Keynes e fondati essenzialmente sul deficit-spending finalizzato a contrastare le fasi cicliche negative dell’evoluzione dei sistemi economici attraverso il sostegno del pieno impiego dei fattori produttivi, e segnatamente del fattore forza-lavoro. Gli strumenti messi a punto a tal fine hanno trovato una larga condivisione da parte di tutte le organizzazioni portatrici degli interessi imprenditoriali e sindacali.

Nel secondo dopoguerra la larga legittimazione sociale e politica riscossa dall’impiego di questi nuovi strumenti di politica economica ha espresso il “clima sociale” che ha consentito la realizzazione di un “compromesso storico tra Stato e mercato”, rendendo possibile, in misura diversa all’interno delle varie economie capitaliste, il verificarsi di un notevole balzo in avanti sul piano economico e su quello sociale nei trent’anni che vanno dal 1945 al 1975 (“Les Trente Glorieuses”).

Il “compromesso” è stato però messo in crisi dalla stagflazione, fenomeno che ha cominciato a caratterizzare le economie capitaliste a partire dalla seconda metà degli anni Settanta; tale fenomeno è stato interpretato come conseguenza imprevedibile della continua espansione dell’intervento pubblico nella regolazione del mercato, perciò considerato la causa del fallimento dello Stato; ciò ha indotto la critica degli economisti conservatori ad individuare come insostenibili sia l’obiettivo del pieno impiego, sia quello della realizzazione di uno Stato sociale protettivo sempre più esteso.

Il persistere della stagflazione ha perciò indotto la critica a identificare una via d’uscita nel ritorno al mercato senza regole, con la conseguente riduzione dell’intervento regolatore dello Stato; ciò ha comportato che, a partire dagli anni Ottanta, si siano affermate idee neoliberiste in materia di politica economica. Ma il riproporsi degli effetti negativi di un ritorno, anche se parziale, all’anarchia del mercato ha determinato il progressivo aumento della spesa pubblica e il crescente indebitamento dello Stato; quest’ultimo, al fine di conservare la fiducia dei mercati finanziari ai quali era costretto a fare ricorso per il collocamento dei suoi titoli di debito, ha dovuto in definitiva accettare le direttive di politica economica prescritte dai finanziatori a tutela dei loro crediti.

Così, a partire dagli anni Ottanta, la strategia seguita dai responsabili del governo delle economie capitaliste per uscire dalla stagflazione è consistita in una crescente deregolazione del mercato, mentre il neoliberismo è divenuto l’ideologia con cui è stato giustificato lo spostamento del focus dell’attività di governo delle economie dai principi keynesiani a quelli cosiddetti hayekiani. I nuovi principi ispiratori della politica economica, infatti, sono stati formulati in occasione di una famosa conferenza svoltasi a Parigi nel 1938 (Le colloque Walter Lippmann), in opposizione al collettivismo socialista ma anche all’originario liberismo “laissezfairista”. Come lo stesso Friedrich Hayek ha avuto modo di affermare, tali principi, ai quali si sono ispirati il reaganismo ed il thatcherismo degli anni Ottanta, riducevano l’intervento regolatore dello Stato a nient’altro che a un mero sostegno di “malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani”.

Il crescente indebitamento dello Stato si è configurato come un nuovo fenomeno, da “curare” non attraverso una nuova forma d’intervento regolatore, ma attraverso il perseguimento dell’obiettivo della riduzione della spesa pubblica, mediante un persistente regime di austerità, ovvero mediante la contrazione del livello dei consumi, soprattutto di quelli di natura pubblica. Secondo Regini questa nuova linea di intervento consente di capire perché la crisi attuale sia così difficile da superare.

Innanzitutto perché il crescente indebitamento ha tratto origine sia dal fallimento del mercato che da quello dello Stato; in secondo luogo perché i principi neoliberisti, divenuti dominanti, si sono rivelati inidonei a suggerire una valida exit-strategy dallo stato di stagnazione in cui sono precipitate le economie; in terzo luogo perché, considerati i precedenti storici dei fallimenti del mercato e dello Stato, i responsabili del governo dell’economia non sono stati in grado di accordarsi sulla via migliore da seguire per uscire dalla crisi. L’esperienza negativa del doppio fallimento, del mercato e dello Stato, conclude Regini, non consente di trarre da essa suggerimenti utili per il superamento dell’attuale stato di persistente crisi delle economie capitaliste: perché qualsiasi ipotesi di politica economica, fondata sul ritorno ad un mercato senza regole o ad un più esteso intervento regolatore dello Stato, è priva di significato, per via dell’esperienza storica negativa che essa evoca.

Sta tutta qui, per Regini, la “chiave” per capire quale potrebbe essere una possibile via di uscita dalla crisi: non proprio, come viene a volte osservato, nel correlare la persistenza della crisi all’eccessiva concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e nell’approfondimento delle disuguaglianze distributive, ma soprattutto nel deficit di capacità progettuale da parte degli attori preposti al governo dell’economia, cui mancano idee alternative a quelle dominanti.

Ma a cosa dovrebbero condurre le idee preconizzate da Regini? Forse ad adottare un qualche provvedimento esogeno ridistributivo della ricchezza per rimediare alla eccessive disuguaglianze reddituali? Provvedimenti di questo tipo non cambierebbero la logica di funzionamento delle attuali economie capitaliste. Essi servirebbero solo a far “guadagnare tempo” (nel senso indicato da Wolgang Streeck), per giustificare la conservazione di governi riformisti non più all’altezza di rilanciare la crescita: in altri termini, i provvedimento riformisti servirebbero solo a rinviare il riproporsi delle crisi.

Che fare allora? Le idee alternative a quelle tradizionali che i responsabili del governo delle economie in persistente crisi dovrebbero trovare non possono che essere tratte dall’interiorizzazione della necessità che la struttura organizzativa delle economie capitaliste sia basata su nuovi paradigmi, in grado di evitare che l’eccessiva concentrazione della ricchezza e l’approfondirsi continuo delle disuguaglianze reddituali soffochino lo stabile ed equilibrato funzionamento dei sistemi economici.