Ho settant’anni suonati e tifo per il Napoli: da tempo quindi  sono lontano dalla giovinezza (per non parlare della Giovinezza), e sono allergico perfino alla Juventus. Figuriamoci se mi commuove l’età media dei ministri.
Del resto non mi commossi neanche quando, vent’anni fa, gli homines novi di Berlusconi e di Bossi sostituirono la classe politica di cui avevo fatto parte. Da Milano a Roma, intitolarono allora Ilvo Diamanti e Renato Mannheimer un loro instant book destinato a festeggiare imprenditori e professionisti (ma anche odontotecnici, sassofonisti e attacchini) che calavano a valle dopo avere fatto per trent’anni Pasqua nelle tane del benessere settentrionale: ma era ovvio che chi da Milano a Roma c’era arrivato trent’anni prima lungo un percorso affatto diverso non riuscisse a festeggiare.
Ammetto che in quel caso era un riflesso antropologico che mi faceva preferire i superstiti di una razza morfologicamente a me più affine. Ora però anche quella razza sembra essersi estinta. Ci sarà tempo per giudicare il nuovo governo, ed anche per stabilire se aveva ragione quell’arguto aretino che disse che si può essere bischeri anche a vent’anni. Adesso però è dell’estinzione di quella razza che conviene parlare. E non solo per scrivere l’ennesimo epicedio dei postcomunisti.
A quelle dei soliti D’Alema, Veltroni e Bersani (per non parlar di Occhetto), nella Spoon River della seconda Repubblica si affiancano infatti le lapidi di Fini, di Casini, di Rutelli, e di quant’altri vollero riciclarsi nel nuovo regime. Sotterrati non tanto perché, come è luogo comune dire, seconde file erano e seconde file sono restate. Più probabilmente perché non hanno avuto il coraggio edipico di sfidare la loro stessa genealogia.
Forse non quella più recente, incarnata dai leader dei rispettivi schieramenti: Casini e Fini, bene o male, Berlusconi lo sfidarono, D’Alema sfidò Prodi, e Rutelli sfidò addirittura se stesso, abbandonando in culla il partito che insieme con Veltroni aveva appena fondato. E’ con le genealogie più remote che non hanno fatto i conti.
Col crollo della Repubblica in cui si erano formati (almeno su questo altri hanno le carte in regola). E soprattutto con i protagonisti del cambio di regime: la “società civile” (sempre evocata e mai frequentata, se non nei sottosistemi di potere che in essa si riproducono), ed il circo mediatico-giudiziario. Se non abbiamo un pubblico ministero a via Arenula, del resto, non lo dobbiamo a loro, ma ai Di Pietro, agli Ingroia, ai De Magistris, e ai tanti altri che hanno incautamente esposto il partito delle toghe alle intemperie della politica.
Come ha spiegato in questo stesso sito Celestino Spada, regge invece ancora – sempre uguale a se stesso – il sistema mediatico di vent’anni fa, con le sue gerarchie, i suoi format, i suoi riti. E regge benché con Grillo si sia fatto scappare di mano l’homunculus nato nell’iperbolica realtà virtuale pazientemente costruita accumulando giorno dopo giorno scandali, intercettazioni ed allarmi sociali. Un esito, questo, che poteva sfuggire (ma forse non è sfuggito)  all’homunculus a sua volta partorito vent’anni fa dallo stesso sistema, che aveva promesso (come scrisse allora Mauro Calise) “la soluzione della crisi sulla base di una semplice combinazione: una legge elettorale maggioritaria e un uomo forte fuori dai partiti”, il cui identikit sembrava tagliato su misura per Mario Segni, e che invece “la solita eterogenesi dei fini” volle che “si adattasse anche a Silvio Berlusconi”.
Non avrebbe dovuto sfuggire, però, a chi si vantava di essere cresciuto a pane e politica, ed aveva quindi tutti gli strumenti per sottrarsi ai codici linguistici imposti dai media. Evidentemente la comparsata in un talk show valeva bene una messa (benché per togliere i peccati dal mondo sia più adatta la celebrazione dell’Ultima Cena che un salotto televisivo). Ma non valeva ad alimentare la circolazione delle èlites attraverso percorsi diversi da quelli della cooptazione clientelare, e ad assicurare quindi la riproduzione di classi dirigenti tali da giustificare la continuità di leadership intermedie e residuali.
Adesso Renzi potrà anche compiacersi degli elogi che quel sistema mediatico gli sta tributando (dagli amici lo guardi Iddio). Ma dovrà compiacersi soprattutto del disappunto che traspare da alcuni editoriali perché il suo non è il “governo beautiful” che era stato preannunciato (e magari ringraziare gli amici “beautiful” che hanno cortesemente declinato l’invito). Meno male che c’è un commercialista all’Ambiente, un funzionario di partito alla Giustizia ed un cooperatore al Lavoro. E meno male che il suo governo è il frutto di una “manovra di palazzo”, e non di quelle vittorie elettorali che non hanno garantito stabilità né a Prodi, né a Berlusconi. Può darsi che con Renzi (magari malgrè lui) sia tornata la politica. Quanto basta per augurargli buon lavoro.