Ora che si vuole riesumare la legge Mattarella se n’è andato chi la definì Mattarellum. Per Giovanni Sartori quella definizione non era il frutto del suo estro a volte bizzarro, e incline – quando era il caso – alla caricatura. Era il giudizio impietoso su un sistema elettorale che avrebbe dato luogo al più clamoroso episodio di eterogenesi dei fini del dopoguerra. Doveva favorire la governabilità, ma consentì a Berlusconi di truccare le carte con la doppia alleanza (al Nord con la Lega, al Centrosud con An), salvo poi subirne le conseguenze col ribaltone operato da Bossi. Doveva garantire un rapporto più diretto fra eletti ed elettori, ma fu una scuola di paracadutismo per centinaia di candidati destinati a collegi in cui non avevano mai messo piede, ma che in compenso erano “sicuri”. Doveva semplificare il sistema dei partiti, ma assicurò lunga vita alle decine di “cespugli” che sorsero sotto le querce e gli ulivi.

Sartori sosteneva il sistema francese: doppio turno di collegio e semipresidenzialismo. Era convinto, infatti, che non bastava una nuova legge elettorale per fondare una nuova Repubblica. Ed anche se nell’XI legislatura non c’era più modo di cambiare la Costituzione, sperava comunque che una legislatura eletta col doppio turno di collegio avrebbe potuto poi provvedere a modificare la forma di governo. Ed in zona Cesarini (a novembre del 1993) la Commissione Iotti stava perfino per dargli ragione, registrando il consenso di Martinazzoli ad un intervento prenatale su quel Mattarellum di cui già allora erano evidenti i difetti. Si oppose il Pds, che pure aveva fatto propria la posizione di Sartori come opzione “di bandiera” nel corso di un iter parlamentare i n cui, fra le parti in commedia, ad esso toccava quella dell’opposizione.

Finì come finì. Ma adesso che Sartori se n’è andato sarebbe il momento di onorarlo aprendo una riflessione collettiva sullo strano caso di una Repubblica nata per semplificare e finita nella confusione.