Caro Prof. Petitot,

ho letto con interesse la sua risposta (apparsa sulla Newsletter di Mondoperaio del 12 marzo) alla mia recensione sulle tesi da lei esposte alcuni mesi or sono, in una sua conferenza dal titolo “La libertà e il liberalismo”. Replico alla “sua risposta”, concordando sul fatto che l’argomento in discussione merita d’essere approfondito, data la sua importanza. Penso però che le nostre visioni siano destinate, almeno per il momento, a rimanere distanti, perché distanti sono gli assunti dai quali ognuno di noi prende le mosse.
Tuttavia, mi consenta alcune precisazioni sul contenuto della “sua risposta”, riguardante la mia posizione rispetto a diverse questioni da lei sollevate.

1. Lei osserva che io, fedele alla tradizione crociana, contrapporrei il liberalismo al liberismo economico, nel senso che quest’ultimo dovrebbe essere controllato dal primo, perché, senza controllo, il liberismo sacrificherebbe tutto ciò che di buono è possibile trarre dal liberalismo. En passant, mi consenta di rilevare che il mio riferimento non era certamente a Croce, tutt’al più a Luigi Einaudi.
Come tutti sappiamo, Croce considera il liberalismo, più che una teoria politica, un principio etico-politico che caratterizza in positivo il corso degli eventi storici. Nel fluire del processo storico, la libertà, per Croce, possiede una supremazia assoluta che si impone nei confronti di tutto. E poiché la storia è storia della libertà, il liberalismo non ha bisogno di “stampelle” che valgano a qualificarla e a proteggerla. Si tratta, evidentemente, di una visione ottimistica della libertà e della storia, perché nell’ottimismo del suo liberalismo Croce ricomprende anche la possibile comparsa durante lo svolgersi del processo storico di “diavoli” e di “imbroglioni”. Quest’approccio riduce il liberalismo ad una visione della storia dell’umanità caratterizzata – per usare una sua espressione – da un “angelismo ingenuo”, che non vale la pena di considerare; mentre le affermazioni per cui si potrebbe essere “liberali non liberisti” o “liberisti illiberali” sono delle semplici “gag” da “sei palle un soldo”.
Sul liberalismo, più convincenti di quelle di Croce sono le idee di Einaudi; questi introduce nei concetti crociani alcune correzioni, in quanto più sensibile alla tradizione del pragmatismo anglosassone che alla metafisica idealistica di derivazione hegeliana. Einaudi considera la libertà come un impegno a conoscere nelle loro reali dimensioni i bisogni dell’umanità, per poterli soddisfare attraverso sistemi istituzionali e criteri normativi sufficienti ad impedire violenza, frode e tirannia. In tal modo, per Einaudi, la libertà si svolge, non in astratto, ma nella reale dimensione del sociale e dell’economico. Di conseguenza, viene a stabilirsi un rapporto di complementarità tra liberalismo e liberismo, che rende quest’ultimo strumentale alla salvaguardia della libertà. Il liberismo, perciò, non implica alcuna assoggettazione della libertà all’”economicismo” (brutta parola, che non fa onore a chi la usa), ma solo l’ “aspirazione” ad essere presidio della libertà, perché questa possa far valere tutte le sue potenzialità.
Come per altri teorici liberali (Friedrich Hayek e Ludwig von Mises, ad esempio), anche per Einaudi, la libertà presuppone il supporto del liberismo economico; così, liberalismo vuol dire coesistenza di una molteplicità di forze e di mezzi economici dei quali le forze possono servirsi per rendere possibile la tendenza dei cittadini alla libertà. Gli aspetti istituzionali, politici e culturali del liberalismo funzionano tanto meglio, quanto più la libertà è in atto nella società; ma ciò presuppone la garanzia della libertà economica. «L’idea della libertà vive, sì, indipendentemente da quella norma pratica contingente che si chiamò libertà economica, ma – afferma Einaudi – non si attua se non quando gli uomini, per la stessa ragione per cui vollero essere moralmente liberi, siano riusciti a creare tipi di organizzazione economica adatti a quella vita libera».
Se si rinviene nella libertà il presupposto per lo svolgimento delle attività sociali un presidio a difesa della “società aperta” in senso popperiano, il liberismo, soprattutto per ciò che esso esprime in termini di libertà individuale, non può che essere considerato essenziale per la salvaguardia del liberalismo. Tuttavia, sarebbe fuorviante legare il liberalismo a una indiscriminata riconduzione al privato di ogni dimensione della società; ciò perché, per lo stesso liberalismo, come per il liberismo, l’organizzazione dello Stato è la garanzia della legalità. Le regole dello Stato di diritto sono, non al servizio degli interessi particolari, ma degli interessi collettivi. In questo senso, liberalismo e liberismo rivelano un intrinseco rapporto di complementarità, sia quando lottano contro i “diavoli” e gli “imbroglioni”, sia quando lottano contro le corruzioni dello statalismo e del parassitismo sociale. Il successo in questa lotta dipende, non dal minimalismo degli interventi, ma dalla qualità complessiva delle misure protettive di cui ha bisogno la società, per un suo corretto funzionamento istituzionale ed economico.

2. Io condivido la sua posizione circa la necessità di naturalizzare le scienze sociali, in considerazione del fatto che, poiché esiste un’unica realtà, occorre ricondurre i fenomeni umani all’unicità reale del mondo. Questa riconduzione, però, non può essere compiuta sulla base di assunti che considerano imperscrutabile la realtà umana ed inintenzionale l’esito dei comportamenti posti in essere dagli uomini. Non me ne voglia, Prof. Petitot: considero un non-senso questi assunti, perché rendono l’esperienza umana non percepibile e, perciò, non spiegabile e non descrivibile. Inoltre, simili assunti rendono indistinguibili le società umane da qualsiasi altra società non-umana; trovo perciò fuorviante il riferimento alla “Favola delle api” di Bernard de Mandeville, perché da essa si pretende di desumere l’esistenza di una “realtà sociale” che riuscirebbe a trasformare il “caos” dell’interazione tra i diversi soggetti in un “cosmo” sociale ordinato; ciò grazie alla presunta capacità auto-organizzativa, di cui sarebbe dotata originariamente ogni forma di vita sociale, tale da consentire inintenzionalmente di pervenire all’ordine, senza la specifica volontà di volerlo perseguire. Tutte le società non-umane, anche quelle più complesse, come quelle delle formiche, delle termiti e delle api, si differenziano da quelle umane per l’intenzionalità, la cui mancanza rende le prime “ripetitive”, quindi prive di processo storico, e le seconde culturalmente evolutive.
Se si assume, come io faccio, che le società umane siano differenti da tutti gli altri tipi di società, seguendo John S. Searl (“Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana”), occorre fondare il discorso intorno alle società umane su alcuni principi metodologici precisi, assumendo che, come accade nei domini culturali dei quali si dispone di una conoscenza oggettiva e stabile pro-tempore, che ci sia un singolo principio, le regole, che unifica anche i domini delle scienze sociali: così come l’atomo è il principio che unifica la fisica, o come il legame chimico che unifica la chimica, o come la cellula che unifica la biologia, nello stesso identico modo le regole costituiscono il principio unificatore delle scienze sociali. In altre parole, le regole costituiscono il principio sottostante l’ontologia della realtà sociale, per cui esse sono i “mattoni” sui quali è costruito il dominio delle scienze sociali.
Compiere questa “reductio ad unum” non significa affermare che le scienze sociali sono come le scienze naturali; significa solo considerare privo di senso il supporre che per comprendere la natura dei fatti sociali occorrano delle assunzioni per le scienze sociali e per quelle naturali logicamente indipendenti, rifiutando la ricerca di un unico assunto unificatore.
Come afferma John R. Searl, la caratteristica “della realtà sociale umana, il modo in cui essa differisce dalle altre forme di realtà animale…è che gli esseri umani hanno la capacità di imporre funzioni a oggetti e persone là dove oggetti e persone non possono svolgere quelle funzioni soltanto in virtù della propria struttura fisica. Lo svolgimento di una funzione richiede che lo status della persona o dell’oggetto sia riconosciuto collettivamente ed è solo in virtù di tale status che la persona o l’oggetto può svolgere la funzione in questione”. In altri, termini, la persona o l’oggetto può svolgere la funzione in virtù del fatto che a esso è stato riconosciuto collettivamente uno status che li rende capaci di svolgere funzioni che non potrebbero svolgere senza il riconoscimento collettivo di quello status. Le funzioni di status dipendono dall’intenzionalità collettiva, un elemento collante che tiene insieme le società umane, poiché tramite esse avviene la mobilitazione “deontica” degli esseri umani; ciò significa che le funzioni di status, una volta accettate, forniscono agli esseri umani ragioni per comportamenti che sono indipendenti dai loro desideri e dalle loro preferenze. Tutto ciò avviene grazie alle regole accettate collettivamente; queste regole disciplinano, non solo il comportamento umano, ma creano anche le condizioni perché possa essere reso possibile il comportamento che regolano.

3. Dalle considerazioni sin qui svolte consegue che frasi tipiche dell’individualismo metodologico, secondo cui la società non esiste, perché esistono solo individui, sono prive di senso; ciò perché la società non è fatta solo di individui (come quella delle api di Mendeville) privi di intenzionalità collettiva. Un aggregato di individui non costituisce necessariamente un sistema sociale; è un sistema sociale, solo se c’è intenzionalità collettiva condivisa ed accettata da tutti i suoi membri. L’intenzionalità rende intelligibili collettivamente i fatti sociali ed esclude la loro presunta natura di fatti inintenzionali. Grazie alle regole che sono la fonte dell’intenzionalità dei fatti, gli uomini cessano d’essere in balia del caso, per diventare i “signori” del loro destino. Si tratta di un approccio ai problemi connessi all’organizzazione delle società umane di tipo kantiano, che fa realisticamente giustizia di tutte le visioni ottimistiche della storia e della natura dell’uomo. Infatti, kantaniamente, non c’è bisogno di ricorrere all’“angelismo ingenuo”, proprio della “società delle api”, per attendersi che questo tipo di società, fornita “via fax” senza conoscerne il “mittente” di capacità auto-organizzative, sia in grado di funzionare ordinatamente. Più realisticamente, i “legni storti”, quali sono per loro natura i componenti delle società umane, dotati di ragione a differenza delle api, possono avvalersi di regole per “ammansire” e “correggere”, quando lo dovessero giudicare conveniente, la loro intenzionalità. Però, è loro consentito di fare ciò intenzionalmente e senza dimenticare che, per quanto possano plasmare e migliorare l’organizzazione della loro società sotto il “mandato della ragione”, le regole adottate conserveranno sempre qualche segno della loro originaria malformazione.
Com’è noto, nella sua prospettiva di analisi dell’evoluzione delle organizzazioni sociali, Kant assume che da un legno storto non possa mai originare, antropologicamente parlando, una “cosa dritta”. Pretendere dogmaticamente l’esistenza di comportamenti umani “angelicati”, significherebbe causare lo sviluppo di interazioni soggettive che avrebbero l’effetto di rendere instabile il funzionamento di qualsiasi organizzazione sociale. Nell’ottica kantiana, la malformazione originaria dell’uomo persiste, anche se sottoposto a processi pressoché infiniti di “levigatura”.
Tuttavia, l’uomo, anche se “legno-storto”, è fornito di ragione e fonda su questa la libertà del suo volere; così, malgrado i suoi limiti organici, sfrutta tutte le potenzialità della sua razionalità per sopravvivere nella società di appartenenza e per creare tutte le condizioni utili a realizzare in termini ottimali il proprio progetto di vita. Egli caratterizza così i suoi comportamenti nei confronti di tutti gli altri componenti la società, in conformità alle sue ineliminabili e personali inclinazioni, trasformando “l’insocievole socievolezza” nello stimolo per la costruzione della propria ordinata esistenza comunitaria. La sua propensione alla conflittualità è certamente causa di molti “mali sociali”; ma per rimuovere questi mali e depotenziare gli stati di conflittualità che derivano dalla sua insocievolezza originaria, l’uomo si dota di un sistema di regole comuni, pur continuando a rimanere ciò che è: un “essere malformato”, che può essere “trascinato” dalle sue pulsioni e propensioni originarie a riservare per sé, in modo discrezionale, ampi margini di libertà. Per questi motivi, per funzionare ordinatamente, le società umane non necessitano solo di un sistema di regole comuni, ma anche di un “surplus istituzionale”. Solo così i propri componenti possono (auto)obbligarsi a rispettare le regole comuni condivise, senza tuttavia la pretesa di realizzare società perfette.
In queste condizioni, i “diavoli” e gli “imbroglioni” potranno essere messi sempre nella condizione di non nuocere, a patto che liberalismo e liberismo procedano sempre di concerto. Ciò perché, è il caso di ripeterlo, l’ordinato funzionamento di una società umana secondo i principi liberalistici e liberisti non è messo al riparo da ogni sorta di pericolo per la presunta auto-organizzazione della quale dovrebbe disporre la società stessa. Se ci si abbandonasse al caso e si potesse fare affidamento unicamente sull’auto-organizzazione, l’evoluzione della struttura della società (è un dato ormai acquisito che, in economia, la concorrenza pura e perfetta, fondata sull’assunto di una struttura atomistica del mercato, non può essere conservata) varrebbe a vanificare gli effetti taumaturgici dell’auto-organizzazione, a danno del liberismo e dell’liberalismo.

4. Un’ultima osservazione. Il mio rifiuto di assimilare l’evoluzione economica all’evoluzione genetica non mette in discussione le indiscusse analogie che esistono tra l’evoluzione culturale e la seconda forma evolutiva. Tuttavia, malgrado l’esistenza di analogie, l’evoluzione culturale e l’evoluzione genetica sono strutturalmente diverse; ciò che le differenzia nell’immediato è la diversa velocità e l’incertezza dei mutamenti: tempi storici e intenzionalità per l’evoluzione culturale; tempi geologici e casualità per l’evoluzione genetica.
Quel che intendo respingere è la pretesa, non disinteressata, a volte avanzata in economia (nei tempi passati più di quanto non avvenga oggi) di giustificare rapporti di dominio di alcuni gruppi sociali (o sistemi sociali) a danno di altri, perché considerati esito del prevalere dei gruppi (o dei sistemi) “più adatti” a dominare, sebbene ciò non avvenga, come si potrebbe giustificare sulla base della sola evoluzione genetica, in presenza del caso e della necessità, ma per un’intenzionale volontà di potenza, niente affatto dovuta sia al caso che alla necessità.
Anche dal punto di vista dell’evoluzionismo culturale, la propensione ad “imbrogliare” non è da intendersi come un atteggiamento pressoché assoluto di ogni soggetto; ciò perché gli “imbroglioni” possono essere tenuti sotto controllo tramite la cultura. Un’importante corrente di pensiero evoluzionista (Ronald Dawkins) afferma che l’unità fondamentale della selezione è fondata, non sull’egoismo della specie, né su quello del gruppo e neppure, in senso stretto, su quello dell’individuo, ma sull’ “egoismo del gene”: ovvero sull’unità fondamentale dell’ereditarietà. Con ciò non si afferma che il termine egoismo voglia dire che i geni hanno una volontà propria, ma solo che il loro effetto è quello di determinare delle strutture fisiche o dei comportamenti suscettibili di vedere aumentare o diminuire la probabilità che il “gene egoista” si replichi e che aumenti la sua frequenza nella popolazione della quale è parte.
Dal punto di vista evolutivo del comportamento delle maggior parte delle società animali (inclusa la società umana) ciò significa che la spinta ad aumentare di continuo il riscatto dal bisogno (nel caso della società umana, ad accumulare) esprime solo una “verità naturale”, secondo cui la mancanza di un limite alla continua espansione della libertà dal bisogno (o alla continua accumulazione) porta inevitabilmente un sistema sociale a livelli di eliminazione fisica molto alto fra i suoi componenti. Ciò perché uno degli aspetti fondamentali della vita sociale, (anzi il più importante), nella maggior parte delle società animali è la propensione a massimizzare il numero dei discendenti in condizioni di sopravvivenza.
Nella società umana, però, i comportamenti finalizzati alla riproduzione sono determinati per lo più dalla cultura, piuttosto che dai geni. Ciò perché, mentre negli altri tipi di società la selezione naturale tende a favorire i discendenti che seguono particolari strategie naturali per “ingannare” opportunisticamente chi li ha generati (con sorrisi, fusa, ecc.), nel caso delle società umane, la sopravvivenza è garantita da regole apprese attraverso la cultura e la realizzazione (com’è possibile registrare oggi) dello Stato sociale. I valori trasmessi attraverso la cultura non fanno parte della natura biologica dell’uomo; perciò, lo Stato sociale, in quanto di origine culturale, è innaturale e per risultare operante necessita dell’insegnamento istituzionalizzato. Lo Stato sociale costituisce, infatti, uno dei più grandi esiti culturali realizzati da una società del regno animale: la società umana. Tale esito è però instabile ed esposto a molti rischi, perché vulnerabile dall’abuso che di esso possono farne i fruitori, in quanto naturalmente malformati.

5. Comprendere la natura delle organizzazioni sociali relative alla vita degli uomini è compito molto importante, perché si continui a lasciarlo alla riflessione esclusiva delle cosiddette discipline umanistiche. Lei, Prof. Petitot, ha ragione quando afferma che bisogna naturalizzare queste discipline; sinora l’aver trascurato gli aspetti principali dell’origine biologica del comportamento degli uomini ha favorito un’interpretazione fuorviante del processo storico, in quanto l’ha inteso come il dispiegarsi di un disegno soprannaturale al cui autore si è richiesto di ubbidire e di sottostare, si chiamasse quest’ultimo Dio, Libertà o Capacità Auto-Organizzativa di ogni forma di vita aggregata.
In conclusione, Prof. Petitot, la Storia siamo Noi, nel senso che l’ “eusocialità” ha potuto progredire e continuerà a progredire in quanto, l’uomo, malgrado i suoi limiti, ma dotato di ragione, ha capito, e continuerà a capire ancora di più in futuro, che cooperare intenzionalmente “fa bene alla nostra specie”.