La notte del 2 aprile scorso è scomparso, a Roma dove abitava,  Cesare Romano Calvelli. Scrivo queste righe di commiato non solo per onorare un militante socialista ed uno  dei miei migliori amici ma per  segnalare a quanti  non lo hanno conosciuto (credo la stragrande maggioranza dei lettori) chi era Cesare. Ricordarne la figura non è solo un modo per  rendere omaggio ad una personalità che può essere presa d’esempio per le sue doti umane, quelle che gli procurarono rispetto e stima in tutti i ruoli ricoperti. Celebrando la memoria di Cesare si evoca necessariamente anche l’epoca in cui visse ed operò, quando in Italia il mondo della politica e del sindacato era popolato da “giganti’’ del pensiero e dell’azione se messi a confronto con la miseria e lo squallore dei leader dei giorni nostri.   Pensando al mio amico defunto mi tornano alla mente alcune pagine delle Storie di Erodoto che al liceo tradussi dal greco. Vi si narrava che Solone, il saggio per antonomasia, in occasione di un “giro del mondo’’ di allora, fosse  capitato in Lidia, ricevuto con tutti gli onori da re Creso (celebre per le sue infinite ricchezze). Il sovrano volle presentare a Solone il suo patrimonio, pensando di stupirlo con “gli effetti speciali’’ dei campi fertili, degli armenti e delle mandrie, delle gemme e degli ori, dei palazzi suntuosi, delle concubine e delle schiave provenienti da ogni angolo della terra conosciuta, la cui bellezza leggendaria surclassava quella delle ragazze che, secoli dopo, sarebbero state ospitate all’Olgettina da un altro Creso dei nostri giorni.  Esibita la propria fortuna, con un’arroganza degna di Matteo Renzi (ma tutto sommato più giustificata e comprensibile), il re della Lidia  volle domandare a Solone chi, a suo avviso, fosse l’uomo più felice del mondo. Ovviamente si aspettava la solita risposta servile che riceveva da tutti gli ospiti: ‘’Tu, o mio sovrano’’. Il saggio, invece, lo lasciò di stucco quando evocò un certo Tello, suo vicino di casa ad Atene. “Ma chi è mai questo sconosciuto e come può essere più felice di me che vivo negli agi, nel lusso e nella ricchezza ?’’. Per tutta risposta Solone raccontò che Tello era un cittadino di una comunità democratica, che aveva combattuto in difesa della patria, che si era sposato, aveva avuto dei figli e dei nipoti i quali lo avevano onorato e accudito da vecchio quando era morto in serenità. “Ma come è possibile paragonare a me, potente sovrano, un quidam de populo ?’’. Era sbottato Creso (ovviamente non parlava latino). Per nulla intimidito, Solone si limitò a far notare che una vita la si giudica alla fine. La storia ha un seguito: Ciro il re dei persiani invase la Lidia e condannò a morte Creso, il quale ebbe modo così di rendersi conto della profezia di Solone. Ma la parabola possiamo chiuderla qui. Cesare è come Tello. Sindacalista socialista della Cgil, dopo la leggendaria Scuola di formazione sindacale di Ariccia, diresse importanti categorie, svolse delicati compiti di staff a fianco di Ottaviano Del Turco (noi tre eravamo e siamo molto legati), fu amministratore dell’Inps, capo delegazione della Cgil sotto la presidenza prima di Giacinto Militello poi di Mario Colombo, quando a gestire questo Istituto erano le parti sociali (e le cose non andavano peggio di adesso). Andato in pensione, si occupò delle relazioni esterne di una società  impegnata nel progetto dell’Alta Velocità, nella tratta iniziale tra Bologna e Firenze,  fino a quando la salute glielo permise. Cesare era un ipocondriaco. Noi amici lo sfottevamo – quando ancora era in buona salute – per il perenne timore di essere in procinto di avere un infarto. Assillava pressoché quotidianamente i servizi sanitari sottoponendosi ad analisi e a misurazioni.  Altro che malato immaginario! Poi, le malattie cardiache arrivarono davvero. E non solo quelle.   Per oltre dieci anni Calvelli ha lottato, giorno dopo giorno, contro la morte; con una determinazione ed una disciplina incredibili ha difeso con i denti quella vita che andava rapidamente affievolendosi.  Fino a spegnersi del tutto. Quando ci sentivamo per telefono mi raccontava la sua passione a lungo; poi, quasi volesse scusarsi, cominciava a parlarmi di politica e del sindacato. Il che ci consentiva di trovarci d’accordo come ai bei tempi (che ci dava conforto rievocare) e di condividere l’amarezza profonda e lacerante per l’epoca in cui ci toccava di vivere. Parlavamo della morte. Ricordo che una volta gli dissi che non si doveva temere la morte ma l’oblio. Cesare trovò lo spirito per una delle sue fulminanti battute e mi rispose che a lui dell’oblio non gliene poteva fregar di meno. Della scomparsa di Cesare mi ha avvertito di buon ora un altro comune amico, Ottaviano Del Turco. Noi tre eravamo inseparabili, anche se da tempo la vita ci aveva allontanati su strade diverse e non lavoravamo più – come era avvenuto per tanti anni – uno a fianco dell’altro, uniti, al servizio di una causa – il riformismo – destinata a perdere nel breve periodo e a vincere in quello lungo. Cesare, in questi anni di dolore, è stato amorevolmente assistito dalla moglie e dalle figlie. Era molto fiero di Elena, la nipote figlia di Francesca e di Marco. Ne parlava con orgoglio, descrivendone i successi e le non comuni qualità. Io gli avevo suggerito di combattere la solitudine acquistando un computer e adottando un gatto. Ma non mi aveva dato ascolto. Che altro dire quando, insieme ad un amico, se ne va anche un pezzo della tua vita, per giunta la parte migliore ? Mi piace ricordare come Cesare ed io ci eravamo conosciuti nel lontano 1966. Ero sceso da Bologna (allora lavoravo alla Fiom di quella provincia) per partecipare ad un Seminario della Cgil che si svolgeva ad Ariccia, nella scuola sindacale. Mi ero iscritto a parlare tra i primi, ma come si faceva allora,  la presidenza mi aveva fatto scivolare in avanti per fare posto a qualcuno più autorevole di me. Così ero finito tra i primi della mattina successiva. Mi ero presentato di buon ora per non perdere il turno. All’ingresso mi aspettava Cesare Calvelli, con l’incarico di chiedermi di rinunciare (cosa che io feci) perché gli iscritti erano troppi e si dovevano terminare i lavori. Negli anni gli ho sempre ricordato questo nostro strano incontro. Adesso spero solo che, quando verrà il mio turno di presentarsi nell’anticamera dei Campi Elisi, ci sia Cesare ad attendermi sulla soglia e che questa volta mi accompagni dentro.