A 78 anni è morto Pasquale Nonno. Era stato direttore del Mattino per nove anni, fino al 1993. Poi era stato spazzato via dal nuovismo dell’epoca. Forse perché era un apota, e non la beveva come tanti suoi colleghi. Ricordo per esempio che Il Mattino – anche per merito del suo corrispondente da Milano, Frank Cimmini – fu l’unico quotidiano nazionale a restare fuori dal pool dei cronisti giudiziari che affiancava (mai termine fu più appropriato) il pool di Mani pulite. E ricordo anche che, quando tutti si sciacquavano la bocca col “modello Westminster”, lui si divertì a smentirli con l’ironia popolare delle storielle napoletane: nel caso, quella del cafone arricchito che si era fatto un intero guardaroba “all’inglese” e per sfoggiarlo era addirittura andato a Londra, dove però aveva scoperto che là nessuno vestiva “all’inglese”.
Apota fu pure, negli anni successivi, rispetto al “Rinascimento napoletano”. Mi è venuto in mente quando, al funerale, sua figlia Monica ha letto un articolo con cui, cinquant’anni fa, Pasquale descriveva su una rivista giovanile la distanza fra la città dei ricchi e la città dei poveri. E mi sono ricordato di un numero di Nord e Sud – la rivista fondata da Francesco Compagna che lui tentò di rianimare dopo l’esperienza del Mattino – in cui si ricordava che Napoli non era solo piazza Plebiscito tirata a lucido per il G7, anche se ora a ricevere i ricchi nella città dei ricchi era il rappresentante della città dei poveri.
Mi dispiace che, andandosene, Pasquale non si sia potuto levare lo sfizio di vedere la fine che stanno facendo i nuovisti di vent’anni fa. Se non lo sfizio, però, si è levato un supplizio: quello della malattia che da qualche anno lo teneva inchiodato al letto.