Che la cultura liberalsocialista in Italia sia debole, a dispetto dei proclami, è fuor di dubbio. E ciò è un bel problema per il centrosinistra. Molti lessero il confronto di ventuno anni fa fra Giorgio Napolitano e Stefano Rodotà – nel 1992 si trattava della presidenza della Camera – come se i due incarnassero due prospettive dissimili: il giurista quella del cosiddetto partito radicale di massa, il leader migliorista quella socialdemocratica.
Oggi viene spontanea una prima considerazione: ciascun personaggio della vita pubblica sembra rappresentare se stesso; uno stile, certo, un modo di porsi e di comunicare, ma difficilmente degli ideali. Tuttavia, scavando appena un po’, affiora un altro mai sopito contrasto, interno proprio al filone liberalsocialista (o liberale di sinistra, non è il caso di dibattere troppo su questioni di lana caprina): quello, semplificando molto, fra il ramo di matrice socialdemocratica, incline ad esempio a un giudizio articolato sulla figura di Bettino Craxi, e il ramo di derivazione “azionista”, in senso lato, che sull’ex leader del garofano rosso non ammette distinguo e sfumature. Nel mio piccolo ho addirittura imparato dal professor Rodotà, ascoltando e leggendo i suoi interventi pubblici negli anni della prima Repubblica, l’importanza e le valenze politiche del concetto di individuo, e ad esempio l’esistenza delle banche-dati, con ciò che esse implicano. E distinguerei sempre fra la persona e l’area culturale che in essa può riconoscersi. Anche perché le forme che tale area assume sono variegate e mutevoli: dal quotidiano la Repubblica al “popolo viola”, dai “girotondi” ai salotti radical-chic. I liberalsocialisti del primo ramo, invece, sono quelli che riconoscono, poniamo, che Craxi, fra Garibaldi e Proudhon, rese popolare e quasi “di massa” l’altro socialismo.
Ora mi chiedo: pur nel rispetto delle differenze, non sarebbe il caso che si costruiscano ponti fra “i volenterosi” delle due “famiglie”, adottando un approccio pacato alla storia e accantonando pregiudizi sterili?