Nel 1982 il giornalista Alberto Ronchey scriveva un celebre saggio  “Chi vincerà in Italia? La democrazia bloccata, i comunisti e il fattore K”, destinato a diventare un classico della politologia nel nostro Paese. In esso si analizzavano le prospettive della politica in Italia, nel quadro del “bipolarismo imperfetto” della prima Repubblica tra Democrazia cristiana e Partito comunista. Ai giorni nostri il quesito appare ancora lo stesso, anche se l’alternativa oggi riguarda il rilancio della politica democratica o la sua fine.
La politica in Italia appare per un verso espropriata dell’esercizio delle funzioni che ad essa la democrazia liberale attribuisce, da parte dei “poteri forti” della finanza globale e suoi chierici tecnocratici e, per un altro, messa alla gogna dalla ventata dell’antipolitica, alimentata dagli errori e dai guasti di di classi dirigenti di partiti, spesso percepiti come impresentabili.
Però, dopo il trionfo del voto di protesta nelle elezioni regionali in Sicilia, tra astensionismo, schede bianche e affermazione del movimento di Beppe Grillo, alcuni segnali sembrano indurre a ritenere possibile una nuova fase della politica in Italia, segnata dal ritorno alla democrazia, praticata con lo strumento tradizionale delle urne anche rispetto al web.
Le primarie del centrosinistra in primo luogo, con una straordinaria partecipazione che ha evidenziato la grande domanda dei cittadini di un ritorno alla democrazia, intesa come espressione della sovranità popolare, nella gestione delle istituzioni pubbliche espropriate dalla tecnocrazia. All’interno di questa straordinaria prova democratica, emerge una diversa rappresentazione della nuova alleanza dei progressisti in Italia, della quale assieme a Pd e Sinistra, Libertà ed Ecologia, protagonisti ed elemento fondativo sono i socialisti guidati da Riccardo Nencini.
Senza tanti giri di parole gli elettori del centrosinistra (ma lo stesso discorso riguarda il destrutturato centrodestra), votando in massa alle primarie per la premiership, hanno inteso mettere in mora l’esperienza del governo “tecnico” di Mario Monti. D’altronde, lo stesso presidente della Repubblica, il maggiore sponsor dell’attuale governo assieme al presidente della Bce Mario Draghi, a fronte delle grida degli aficionados montiani, Casini e Montezemolo in testa, che chiedono all’ex rettore della Bocconi ed ex commissario europeo di guidare una lista alle prossime elezioni politiche, ha ricordato che esso non è candidabile al Parlamento in quanto senatore a vita, sottintendendo la natura super partes dell’attuale esecutivo e che sarebbe sconveniente celare dietro la cosiddetta “agenda-Monti” personali ambizioni di leadership.
Una messa in mora dunque, basata sulla rivendicazione di un ritorno alla democrazia nelle scelte pubbliche, ma anche sulla contestazione della politica economica dell’attuale governo, che ha impoverito la maggioranza degli italiani, aprendo la porta alla recessione e al declino, sotto la dettatura, in Italia come in Grecia, in Portogallo, in Spagna e in Irlanda (ma il prossimo Paese nel mirino è la Francia!), della troika tecnocratica formata da Fondo Monetario Internazionale, Banca centrale europea e Germania, quest’ultima che nel corso dell’ultimo vertice europeo ha inaugurato un’inedita alleanza con la Gran Bretagna isolazionista in Europa e atlantista a livello internazionale.
I cittadini italiani si attendono una politica davvero riformista, che introduca elementi di equità nel sistema fiscale e in quello sociale. Sul primo versante, al posto di tante stucchevoli polemiche sulla patrimoniale, basterebbe rendere effettivo il principio costituzionale della progressività delle imposte, inasprendo quella per i super-redditi e per banche e assicurazioni, e tassare i capitali depositati nei paradisi fiscali. Sul secondo versante si devono tagliare i privilegi, a partire da quelli previdenziali e dei vitalizi, e riorganizzare un nuovo sistema di welfare inclusivo e promozionale.
Elementi nel quadro di una politica economica anti-ciclica, che stimoli i consumi e, quindi, la produttività (che non cresce con accordi sindacali come quello recentemente siglato, secondo il quale essa cresce se si tagliano le retribuzioni, reintroducendo, di fatto, il vecchio cottimo sotto le mentite spoglie del “salario di produttività”) e, in ultima istanza, l’occupazione.
Si tratta di porre fine all’attuale utopia, espressa dalla nuova fase del capitalismo a livello planetario, passato dal primato della produzione a quello della finanza, fondata sulla convinzione che le forze dei mercati finanziari possano rappresentare l’unico principio regolatore dell’attività economica e della società e che il modo migliore per garantire la crescita sia quello di vincolare la sfera politica e limitarne le interferenze con l’operare della concorrenza, sostenuta da monete forti e da vincoli ai bilanci pubblici.
Il messaggio, semplice e immediato, scaturito dalle primarie è andare subito al voto, per eleggere un governo politico.