Le calamità naturali da sempre offrono spunti di riflessione e rappresentano un’occasione per considerazioni di vario genere: dal destino degli esseri umani alle inefficienze dell’organizzazione politica. Così il dissesto idrogeologico del bel paese da decenni è uno dei temi caldi del discorso ambientalista.
Oggi, però, dinanzi alle cronache più o meno ordinarie sulle conseguenze, ad esempio, della pioggia battente o delle “bombe d’acqua”, mi sembra di scorgere una crescente difficoltà ad ordire una trama, ad organizzare un ragionamento. Un tempo bastava leggere, poniamo, l’editoriale de l’Unità del giorno dopo per rilevare delle chiavi interpretative di quanto accaduto: il malgoverno, il degrado del territorio, la logica del profitto, il modello di sviluppo capitalistico. Oppure, secondo altre prospettive, si poneva l’accento sull’arretratezza dell’Italia e sull’esigenza della modernizzazione.
Oggi, invece, è come se la cronaca non riuscisse a trascendere se stessa e a trasformarsi in “racconto”. Come se il disincanto impedisse di provare a capire e di prendere davvero posizione, al di là dell’indignazione o della vicinanza umana alle vittime. I racconti di una volta peccavano d’ingenuità e potevano essere strumentali. Le cronache odierne paiono nascondere una seria difficoltà o una rinuncia a inquadrare gli eventi, al di là della polemica spicciola.