Secondo le statistiche dell’International Comparison Program della Banca Mondiale, gli Stati Uniti stanno per perdere il primato nell’economia mondiale. Forse saranno superati dalla potenza asiatica entro il 2014; così gli Usa, che erano in cima alle classifiche del Pil dal 1872, dopo aver sostituito allora il Regno Unito, oggi dovrebbero cedere lo scettro del primato alla Cina.
Come da più parti viene osservato, la notizia, degna d’essere commentata alla maniera di affabulatori come Federico Rampini (costantemente impeganto a raccontare il futuro del mondo con un approccio che evoca, alternativamente, ansie preoccupate per il presente e slanci entusiastici per il possibile futuro), può essere valutata solo un “’gioco’ statistico e poco più”; essa infatti si presta ad alcune necessarie precisazioni statistiche, e soprattutto a molte osservazioni, non semprte positive, di natura politica.
Dal punto di vista statistico, per un reale confronto del Pil di due diverse economie occorre che si operi una conversione del potere d’acquisto del Pil di ognuna di esse in termini di potere d’acquisto del Pil dell’altra. A tal fine è necessario fare ricorso ai cambi; ma non a quelli di mercato, espressi dal valore che assumono sul mercato corrente delle valute (il dollaro per gli Usa e lo yuan/renminbi per la Cina), bensì ai “cambi a parità di potere d’acquisto”.
La logica sottostante questi ultimi è sintetizzata dalla legge del prezzo unico, secondo la quale uno stesso bene venduto all’interno di economie diverse deve avere lo stesso prezzo; ciò implica che con un dollaro o con uno yuan/renminbi sia possibile acquistare la stessa quantità del bene considerato nei mercati Usa o in quelli cinesi.
La stima del Pil sulla base dei cambi a parità di potere d’acquisto va incontro alle molte difficoltà che si incontrano nella costruzione di un “paniere comune di beni e servizi” da utilizzare per poter determinare quella stima, sulla base però dei prezzi di mercato cinesi. Non a caso l’International Comparison Program ha precisato che le differenze fra i Pil, stimati sulla base di cambi a parità di potere d’acquisto di economie simili (come possono esserlo ad esempio l’economia Usa e quella del Regno Unito) non sono significative se contenute entro il 5%; mentre per economie marcatamente differenti, quali quelle degli Usa e della Cina, le differenze, che possono raggiungere il 15%, divengono tanto poco significative da negare validità a qualsiasi tentativo di stilare classifiche.
Dal punto di vista politico l’exploit economico della Cina presta il fianco a diverse considerazioni, non tutte positive. Innnazitutto, malgrado l’indiscutibile aumento del Pil, anche se sulla base dei dati della Banca Mondiale Pechino supererà Washington entro la fine di ques’anno la Cina resterà molto indietro nella classifica del Pil pro-capite, considerando che la popolazione cinese è quattro volte quella statunitense. La Cina perciò resterà un paese a medio reddito e relativamente povero: per cui nella classifica mondiale del Pil pro-capite resterà intorno alla centesima posizione, mentre gli Usa saranno tra i paesi in cima alla classifica. A disporre di grandi risorse saranno nel paese asiatico solo i governi che si succederanno negli anni a venire; essi però dovranno affrontare i gravi squilibri territoriali e personali che il grande balzo in avanti ha causato.
Il fatto che la Cina debba affrontare le sfide che le verranno dall’interno comporterà che gran parte delle risorse di cui potrà disporre siano destinate, se non a rimuovere, ad attenuare le diseguaglianze consolidatesi; ciò sarà reso ancora più impegnativo dalla probabile perdita dei privilegi economici ad essa concessi, quale economia emergente, dalla WTO, e soprattutto dal venir meno delle opportunità di cui sinora ha potuto fruire grazie al “dumping sociale” con cui ha sostenuto le esportazioni: innanzitutto perché non soggetta alle onerose leggi in materia di diritti sociali vigenti in quasi tutti i paesi industraializzati; in secondo luogo per il venir meno dello status particolare, come quello accordato dal “protocollo di Kyoto”, che ha permesso alla Cina tassi d’inquinamento ambientale da rendere difficoltosa la stessa sopravvivenza in molte aree del paese.
Il primato economico cinese, tuttavia, potrebbe avere un risvolto positivo sul piano geopolitico; esso infatti potrebbe costringere gli Usa a correggere la loro posizione di debitore verso l’estero, concorrendo a realizzare migliori condizioni di stabilità economica a livello mondiale. Sinora la crescente espansione delle esportazioni cinesi è stata utilizzata dagli Usa per giustificare la loro posizione debitoria nei confronti del resto del mondo, con l’accusa rivolta alla Cina di manipolare la propria moneta per conseguire vantaggi competitivi attraverso l’abuso di procedure svalutative ai danni degli altri paesi.
Secondo Stephen Roach, economista della Yale University (Il Sole 24 ore del 1o maggio), la questione rappresenta da tempo uno dei problemi di politica economica più spinosi nei tapporti Usa-Cina. L’atteggiamento critico degli Usa però sarebbe ispirato da ragioni politiche, piuttosto che da ragioni economiche: l’ossessione amercana del tasso di cambio del dollaro con lo yuan/renminbi è, secondo Roach, “un classico caso di negazione politica”, strumentalizzato per giustificare i bassi livelli dei salari reali dei lavoratori ed il rischio di disoccupazione al quale tutta la forza lavoro è esposta.
In realtà il disavanzo della bilancia commerciale americana è uno squilibrio di natura multilaterale con un gran numero di paesi, non un problema bilaterale con la nuova potenza economica asiatica. La posizione debitoria americana verso l’estero, perciò, non nasce dalla manipolazione opportunistica dello yuan/renminbi, ma dal fatto che gli Usa tardano a porre rimedio al disordine dei loro conti esteri: anche se gli scambi con la Cina sono la componente principale dello squilibrio di tali conti, questo fatto però è la conseguenza della più complessa struttura dei rapporti commerciali che gli Usa intrattengono con il resto del mondo.
Secondo Roach ciò significa che qualsiasi riduzione della quota di squilibrio della bilancia commerciale degli Usa con la Cina finirebbe per tradursi in un aumento della quota di squilibrio nei confronti di altri produttori esterni: fatto questo che finirebbe col creare cause di instabilità dell’economia mondiale, e quindi col gravare ancora più negativamente sulla situazione economica interna.
In conclusione, al di là dei proccupati commenti che i progressi della Cina possano o meno cambiare il “verso dell’economia del mondo”, ciò che oggi dovrebbe maggiormente preoccupare è la scelta da effettuare tra le possibili visioni alternative delle relazioni tra le due più importanti economie mondiali: una che vede, da parte degli Usa, solo rischi; ed un’altra che dovrebbe indurre la generalità dei paesi dell’economia-mondo a cogliere le opportunità offerte da relazioni Usa-Cina più equilibrate. L’ossessione per lo yuan/renminbi e per la possibilità che il Pil cinese possa superare quello degli Usa ricade nella prima visione; la speranza di un riequilibrio della bilancia comerciale degli Usa per una duratura stabilità economica mondiale ricade nella seconda. Quest’ultima visione, tra l’altro, costituisce la pre-condizione per trarre vantaggio dal boom prossimo venturo della domanda interna cinese, che la nuova potenza non potrà fare a meno di soddisfare.