Diventai amico di Valerio Zanone nel 1994, quando entrambi decidemmo di prendere sul serio la sfida politica di Mario Segni (legittimata a furor di popolo in ben due referendum), ed entrambi capimmo come sarebbe andata a finire molto prima che si aprissero le urne elettorali. Fu quando Segni pose il veto alla candidatura di Gennaro Acquaviva, in quanto già consigliere politico di Craxi, e gli preferì un  democristiano che poi ebbe guai con la giustizia in campagna elettorale.
Zanone mi propose subito di ritirare anche le nostre candidature (cosa che poi non facemmo su pressione dello stesso Acquaviva): ma era chiaro che “il nuovo che avanzava” di gente come noi non sapeva che farsene, e che d’altra parte il popolo non più furibondo non sapeva che farsene neanche di Segni, e gli preferiva Silvio Berlusconi.
Lo incontravo spesso sul 64, col quale raggiungeva la stazione di San Pietro per andare nella casa di campagna in cui si era ritirato. Mi contestava la grafica della rivista, e soprattutto la scelta di pubblicare illustrazioni senza nesso col testo, come invece faceva Il Mondo di Pannunzio. Ma apprezzava il nostro lavoro. Come noi, cercava di riprendere il filo dell’innovazione politica mettendo fra parentesi il disastro della seconda Repubblica.