L’agenda Monti per l’università e la ricerca è  oggetto di numerose critiche da sinistra. Anche a chi come me apprezza altre parti del documento, e trova un po’ troppo da processo alle intenzioni talune delle critiche, questo testo non piace. Non tanto per quello che dice quanto per quello che non dice, per il taglio eccessivamente economicista e per l’imprecisione con cui dice quel poco che dice.
Forse l’affermazione in positivo più importante non la si trova nel capitolo specifico bensì in quello sulla spending review, motivo per cui per lo più è sfuggita ai critici. Lì infatti appare un impegno finora mai assunto dai governi, dove si dichiara che il settore dell’istruzione e della ricerca è fra i pochi di carattere strategico che dovranno essere esentati dai futuri tagli. Quando invece si parla specificamente dell’università e della ricerca l’impegno si fa più sfumato ed incerto: “man mano che si riduce il costo del debito pubblico e si eliminano spese inutili, possiamo creare nuovi spazi per investimenti nell’istruzione”.
Tutto ciò poteva bastare nel 2008 e forse anche alla fine del 2011 allorché Monti divenne premier. Ma non oggi dopo i 300 milioni di tagli effettuati dal suo governo che, sommati ai vistosi effettuati precedentemente, fanno sì che, come ha denunciato la Conferenza dei Rettori, la metà degli atenei italiani abbia un’elevata probabilità o addirittura la certezza di finire in default nel 2013.
Come ricostruire dopo avere distrutto? La domanda è da girare ai teorici di quel vero e proprio armageddon che si sta abbattendo sull’università italiana, e di cui è arduo immaginare come nel film il lieto fine. A cominciare da quegli autorevoli economisti bocconiani che pur criticando il pragmatismo montiano, come hanno fatto di nuovo pochi giorni fa Alesina e Giavazzi su Il Corriere, diffondono nel suo entourage idee che ne influenzano poi gli atteggiamenti.
Così può essere accaduto relativamente alla tesi che nell’università pubblica, essendoci grandi sprechi, sarebbero possibili grandi risparmi. Un’idea balorda in un paese che figura al 32° posto sui 37 della statistica OCSE sulla spesa per l’università in rapporto al PIL. Il compianto Guido Martinotti, polemizzando con i furori talebani di uno dei rappresentanti di questa troppo ascoltata scuola di pensiero, aveva detto qualche anno fa più o meno così: “poche le risorse, pochi gli sprechi, pochi i risparmi possibili con la loro, pur doverosa, eliminazione”.