C’è qualcosa che blocca la crescita economica da oltre venti anni e che nello stesso tempo fa aumentare le disuguaglianze sociali? Qualcosa che impedisce a gran parte degli italiani di guardare al futuro con un minimo di speranza? Se c’è, questo qualcosa, dipende da quanti preferiscono lasciare tutto come è per un calcolo di convenienza, e dalla loro capacità di imporre a tutti gli altri questa preferenza. La torta, per costoro, si sarà magari ristretta nel tempo, ma è ancora lì pronta per una spartizione ragionata.

Chi sono? Pezzi di classe dirigente (di amministrazioni, di banche, di assicurazioni), imprese sovvenzionate, concessionarie o partecipate, servizi pubblici in regime di monopolio, grandi evasori, professioni protette, percettori di redditi o prebende per prestazioni di fantasia. Rendita improduttiva in ogni caso. Difesa con forza e soprattutto in modo organizzato contro maggioranze inermi, e pertanto, ha scritto Andrea Capussela in Declino Italia, “destinate a soffrire in silenzio. Come i residenti di Corsico o Gioia Tauro di fronte alla ‘ndrangheta, o i contribuenti fedeli di fronte all’evasione fiscale”.

In apparenza non c’è nulla di nuovo dopo la scoperta delle minoranze organizzate di Gaetano Mosca. In realtà oggi esse possono agire su un terreno ancora più favorevole, per due ragioni concomitanti.

La prima è la debolezza della politica degli ultimi decenni. È vero che già negli anni ’50 Enrico Mattei affermava di usare i partiti come i taxi. Ma era Enrico Mattei, personalità non replicabile. D’altra parte la permeabilità dei partiti e delle loro correnti da parte dei gruppi organizzati si è estesa a dismisura, anche perché a dismisura sono aumentate le occasioni di scambio. Una politica strutturata per cacicchi, come ha scritto più volte sulla rivista Luigi Covatta, non può che essere prona alle pretese dei tanti gruppi unicamente interessati a mantenere le loro rendite, e perciò indifferenti alla linea di demarcazione destra/sinistra. Per loro conta casomai chi di volta in volta sta al governo (nazionale o regionale), perché da lì passa la via per garantirsi l’autoconservazione, anche quando la necessità di contenere un debito pubblico incontrollato chiederebbe a maggior ragione giustizia sociale.

La seconda ragione di forza delle minoranze organizzate sta nel poter agire indisturbate. Nel dibattito pubblico i fari non sono quasi mai accesi su di loro, e quando in casi eclatanti si accendono, in un mondo dove le responsabilità non sono ben definite è facile trovare un altro capro espiatorio. Di regola comunque i temi sono altri, anche perché lo stesso scontro politico è divenuto uno strumento di distrazione di massa.

Le cose andrebbero in altro modo se l’informazione agisse da contropotere. Dopotutto, si chiederà Candido, non sono i giornalisti a comunicare col grande pubblico delle vittime delle minoranze organizzate? Solo che lo fanno per denuncia scandalistica, o “gogna mediatica”, una cosa completamente diversa dalla ricerca di come le risorse pubbliche vengono troppe volte sprecate o rapinate senza colpo ferire. Più è così, e meglio maggioranze parlamentari possono nascere nel baraccone dell’onestà dei “cittadini” contro il bersaglio-fantasma della classe politica, senza dare fastidio alle minoranze organizzate.

Su questo sfondo antico di finzioni e di collusioni è calata una frase pronunciata dal Presidente del Consiglio nel presentare in Parlamento il Piano nazionale di ripresa e resilienza: “Sono certo che riusciremo ad attuare questo Piano. Sono certo che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti”.

Qualunque Presidente del Consiglio deve essere ottimista. L’ottimismo di Draghi si riferisce però a uno scontro (“prevarranno”) del suo Governo con “gli interessi costituiti”. Se l’onestà è l’opposto della corruzione e l’intelligenza è l’opposto della stupidità, non è immediatamente chiaro che il gusto del futuro lo sia degli interessi costituiti. Lo diventa se consideriamo la capacità delle minoranze organizzate di paralizzare ogni cambiamento.

La scommessa del PNRR si può allora leggere in due modi. Come una mobilitazione comunque ingente di risorse, condizionata all’attuazione di certi obiettivi non realizzati da decenni. E’ la versione ufficiale, concordata dall’Italia con l’Unione europea.

Per i titolari di “interessi costituiti”, il PNRR si presenta piuttosto come il potenziale allargamento di una torta già a loro disposizione. Qui la scommessa è di segno opposto. Potremo disporre, si staranno chiedendo, delle nuove risorse fingendo di raggiungere gli obiettivi del Piano, e quindi senza diminuire il nostro peso nei meccanismi decisionali? E a partire da quale momento ci converrà lasciar perdere per mantenere almeno quello che abbiamo?

Va aggiunto che stavolta “le riforme” richieste all’Italia consistono nel raggiungere obiettivi già fissati per legge, e molto meno nell’approvare leggi nuove, cosa che disturba poco i gruppi organizzati fino a quando non bisogna applicarle. Ormai tutti in Europa hanno capito che l’applicazione delle leggi è per l’Italia un grande problema, proprio perché tocca interessi incistati nelle amministrazioni.

E’ in ballo qualcosa che va oltre l’amministrazione e la politica dell’eterno presente. Gli interessi degli esclusi, per troppo tempo lasciati “a soffrire in silenzio”, e troppo ingannati dalle chiacchiere dell’opposizione “popolo contro élite”, per ritrovare la voglia di fare i conti politicamente coi loro veri avversari.

Del resto come potrebbe il Piano anche solo toccare i grandi gruppi organizzati con ricette tecniche, ingegnerie calate dall’alto? Per affrontarli bisognerebbe rovesciare il tavolo della grande paralisi italiana con un uso intelligente e coraggioso delle risorse della politica. Nulla a che vedere con molti, pavidi o sbruffoni che siano, fra quanti ancora calcano la scena.

Ecco perché faremo la nostra parte, non importa quanto piccola. Anzi per la verità abbiamo già cominciato. Col ciclo di seminari di gennaio intitolato Rifare l’Italia, dal discorso tenuto da Filippo Turati alla Camera il 26 giugno 1920. Rifarla con la maggiore apertura a quanti vogliono credere in un futuro comune, chiarendo la posta in gioco attraverso un discorso di verità.