Si dice che quando Adriano Olivetti chiese di iscriversi al Partito socialista anche la corrente maggioritaria che proclamava l’”autonomismo” dal modello comunista, tentennò. Si era infatti convinti che in un partito di “lavoratori” un “padrone”, pur se animato di buone intenzioni, non potesse trovarvi posto. La mancata intesa indusse allora Olivetti a tentare la strada di una nuova formazione politica, quel movimento “Comunità” che, ideato subito dopo la guerra e sperimentato con successo a livello amministrativo locale a Ivrea e nel Canavese, affiancato da un sindacato collaterale “autonomo” dalle grandi confederazioni nazionali, ma non banalmente “padronale”, attraversò per pochi anni, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, anche la scena politica nazionale. L’episodio appare però emblematico non solo della chiusura di orizzonte della cultura di sinistra dell’epoca, ma più in generale della arretratezza di tutta la società italiana: e infatti Olivetti non trovava migliore accoglienza negli ambienti confindustriali così come in quelli liberali e conservatori, per non parlare di quelli democristiani e cattolico-sociali.

Anche se molto è stato ormai scritto su quella singolare esperienza politica (del resto esaurita, con la morte prematura del suo fondatore, nell’arco di una sola legislatura) resta da approfondire il contesto culturale in cui essa maturò e la dimensione della sua eredità, effimera sul piano politico, ma straordinaria proprio su quello culturale. Il suo socialismo utopistico era certo anche nutrito dalle ottocentesche esperienze di Owen, (ma anche dal pensiero di Proudhon, Fourier, Mazzini, Cattaneo) a suo tempo liquidate da Marx per la loro utopistica (appunto) inconsistenza. Ma proprio quella presunta loro debolezza dottrinale, quella loro inadeguatezza di fronte alla prorompente rivoluzione del capitalismo industriale, apparivano adesso, alla metà del XX secolo, di nuovo interessanti, alternative al ferrigno modello del comunismo sovietico e del suo greve statalismo autoritario, più adatte a misurarsi con le incipienti trasformazioni economiche e tecnologiche e le stesse crisi di sviluppo che il capitalismo in Occidente incominciava a incontrare e che il riformismo fortunato delle socialdemocrazie europee sempre di più avrebbe stentato a gestire.

Si pensi ad esempio alla visione olivettiana di una organizzazione politico-sociale del territorio che integrava in esso la fabbrica non più come antagonista e predatrice, ma come complemento virtuoso del suo armonico progresso, tanto civile quanto economico. In questo contesto l’organizzazione politico-istituzionale non poteva che essere federalista (quanto attuale oggi!), basata sulle più larghe autonomie (desunte innanzitutto dai modelli svizzero, tedesco e nordamericano), con un parlamento nazionale di una sola Camera federale eletta dalle comunità individuate non solo territorialmente, ma anche per categorie e funzioni economico-sociali. Singolare e spregiudicata ipotesi, quest’ultima, che sembrava voler addirittura mescolare il corporativismo del pensiero sociale cattolico con la democrazia integrale dei “produttori” di ascendenza soviettista.

D’altronde il simbolo del Movimento Comunità, voluto e ideato dallo stesso Olivetti, era una campana (non solo la campana della tradizione religiosa cristiana, ma anche la “squilla” dei laici e liberi Comuni). “Humana civilista”, civiltà umana, è scritto sul nastro che avvolge la campana” – scriveva Adriano Olivetti su Città dell’uomo nel 1959: “Ognuno di noi può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato, essa suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro l’acquiescenza, la solidarietà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza […] Occorre soprattutto fede nella redenzione dell’uomo, nell’ascesa verso una Comunità più libera spiritualmente e materialmente più alta, in un mondo più degno di essere vissuto”.

In tempi di conclamata crisi dell’idea socialista in Italia è bene riandare a quella memoria e a quella esperienza tuttora feconda di speranza

Vico Avalle ci ha sempre ricordato che il socialismo di Adriano era soprattutto personalista. E visibile è in lui l’influenza del pensiero di Maritain e del “personalismo comunitario” del cattolico sociale Mounier. Molti dunque videro in Adriano uno dei tanti socialisti utopisti, generosi, magnifici nel donarsi, nel pagare sempre di persona, ma fragili vasi di coccio tra i vasi di ferro della politica “vera”, spregiudicata nei cinismi, nelle ipocrisie, nel calcolo sempre utilitaristico delle convenienze piuttosto che dei valori.

Egli tuttavia predicava il germe di un’Italia nuova: di quell’Italia “civile” che non si era piegata al fascismo, che aveva saputo fare le sue scelte di libertà e dignità nell’ora della disfatta l’8 settembre 1943, che aveva saputo ricostruire, a guerra finita, un paese più moderno e più libero. Di quell’Italia laica e democratica che non aveva voluto uniformarsi ai nuovi conformismi e ai dogmatismi d’importazione sovietica. Di quell’Italia, soprattutto, che era consapevole che la salvezza sarebbe venuta dal legame sempre più stretto con l’Europa, con le grandi democrazie occidentali, con l’allargamento della cultura scientifica e tecnologica, con l’industrializzazione come scelta non solo economica, ma di sviluppo civile. Emblematica appare ancora oggi l’intuizione di promuovere sinergie industriali che anticipino le tendenze globalizzanti, ma a partire dall’Europa verso gli Stati Uniti e non sempre solo viceversa. Pur nel suo esito deludente, tale va valutata l’operazione Underwood e il tentativo di ampliare i settori di eccellenza dell’elettronica e dell’allora nascente informatica.

Non è un caso che Olivetti discendesse da una famiglia che univa culture feconde di scambi e di esperienze vitali. Perché, in ultima analisi, il socialismo “comunitario “ puntava sulla cultura e sulla sua diffusione, come vera e moderna leva dell’emancipazione civile e sociale. Se si pensa che la grande letteratura scientifica internazionale – quella sociologica e psicologica così come quella urbanistica e del design industriale – entravano in Italia, praticamente per la prima volta, grazie alle edizioni di Comunità, si ha un’idea di che eredità ha lasciato il socialismo atipico e utopico, comunitario e personalista di Adriano Olivetti. In tempi di conclamata crisi dell’idea socialista in Italia forse è bene riandare a quella memoria e a quella esperienza tuttora feconda di speranza.