La storia, lo sappiamo, conosce cesure e cambi di paradigma, e nel contempo propone costanti di “lunga durata”, “fiumi carsici” e repliche tristi o gioiose. Ronald Reagan, ad esempio, era un “grande comunicatore” grazie soprattutto alla tv; non a caso gli Ottanta furono gli anni della “videocrazia”. Oggi, invece, balza agli occhi come il cordoglio di Bill Clinton e di Barack Obama (e dello stesso presidente in carica) per la scomparsa di Bush senior sia affidato ai cinguettii telematici. Come dire: ogni epoca vede prevalere un mezzo di comunicazione.

Proprio Bush senior, poi, era a suo modo erede del conservatorismo pop di Reagan, per l’appunto: un orientamento che non esitava a invocare un legame più stretto fra politica e religione, ad esempio, o l’abolizione del limite di due mandati per i presidenti. Eppure egli era un conservatore “vecchio stampo”, incarnando quello “spirito del capitalismo” mirabilmente tratteggiato dal grande Max Weber (e lo stesso Bush junior amava definirsi “un conservatore compassionevole”), o l’esigenza di distinguere fra poteri, sfere, ambiti.

Un repubblicano in linea con la tradizione, dunque, inaugurava una nuova era: quella della globalizzazione del dopo-guerra fredda. Mentre un presidente sui generis come Donald Trump si fa oggi interprete proprio della grande paura nei confronti del “mondo-villaggio”.

E che dire della sintonia del vecchio Bush con i suoi successori democratici? Nostalgia per la “vecchia America”? Forse. Ma soprattutto intuizione dei rischi legati alla deriva demagogica e alle pulsioni verso l’isolamento.

Non vorrei però che, fra paradossi veri o apparenti (non ultimi quelli di cui era espressione, da presidente, Bush junior), si dimenticasse la lezione umana e politica di Jimmy Carter, grande americano e vero cittadino del mondo.