di Luciano Pero e Anna M. Ponzellini – www.arel.it/legislazione.php (dicembre 2012)

L’importanza della flessibilità per i sistemi produttivi

Non c’è dubbio che esista una forte correlazione positiva tra flessibilità degli orari di lavoro e produttività aziendale. Da quando le imprese si trovano costrette in produzioni sempre meno standardizzate e in mercati globali sempre più competitivi (con picchi e flessioni della domanda sempre più difficili da prevedere) e da quando l’innovazione tecnica ha aperto nuove possibilità (in qualche caso, anche vincoli) nell’utilizzo degli impianti, il vecchio sistema fordista non regge più. In particolare nel caso delle produzioni industriali, la globalizzazione ha aperto una competizione sui mercati mondiali (e anche europei) che richiede risposte di flessibilità non occasionali ma strutturali. Sistemi organizzativi realmente flessibili consentono il miglioramento dei processi, la saturazione degli impianti, la puntualità nelle consegne, il rispetto delle scadenze previste dai contratti di fornitura. Permettono quindi di generare aumenti significativi di produttività e, in questo modo, di contrastare le delocalizzazioni e difendere l’occupazione. Il caso tedesco – economia industriale molto simile alla nostra – dimostra come la messa a sistema di regimi di flessibilità dell’organizzazione delle produzioni realizzata negli ultimi otto-dieci anni abbia costituito uno dei fattori più importanti di competitività dell’intera economia. Una flessibilità, tra l’altro, non imposta ai lavoratori ma “scambiata” .

Rimuovere i fattori d’inefficienza e le flessibilità poco produttive

Se poi ribaltiamo lo sguardo e consideriamo, oltre ai benefici per la produttività che possono derivare dall’aumento della flessibilità degli orari, i vantaggi che potrebbero derivare dall’eliminazione di alcuni fattori di improduttività, la via da seguire appare ancora più chiara. Dal punto di vista dei costi aziendali, vi sono almeno tre fattori che generano evidenti inefficienze nella gran parte delle imprese: da una parte l’assenteismo, dall’altro l’abuso dello straordinario, da ultimo l’esternalizzazione della flessibilità attraverso l’uso di rapporti d’impiego temporanei. L’assenteismo, tradizionalmente molto elevato in Italia in tutti i settori (anche se ultimamente in calo), è una risposta quasi-scontata dei lavoratori a un’organizzazione del lavoro molto rigida e ancora segnata dai vincoli del modello fordista – orario standard giornaliero e settimanale – anche laddove le possibilità aperte dall’innovazione tecnica consentirebbero una diversa gestione delle esigenze di tempo individuali. In secondo luogo, il dilagare delle ore straordinarie combina la scarsa capacità di pianificazione e razionalizzazione dei processi da parte delle imprese (anche di quelle grandi, non più solo di quelle minori) con la fame di retribuzione aggiuntiva da parte dei lavoratori la cui dinamica salariale reale è stata notoriamente negativa – almeno per il settore privato – per tutto l’ultimo decennio. Lo straordinario è una risposta organizzativamente “povera” alle esigenze sempre meno eccezionali di flessibilità della produzione e al contempo rappresenta un costo altamente improduttivo per le aziende perché spesso aumenta anziché ridurre i problemi di efficienza organizzativa (squadre improvvisate e non assortite, addetti impiegati su lavorazioni che non conoscono, ore in più non necessarie se non come strumento in mano ai capi per fidelizzare alcuni lavoratori), tanto che, come è noto, le aziende più efficienti ed organizzate lo usano poco. Tuttavia è stato soprattutto lo straordinario ad essere incentivato dai governi con reiterati provvedimenti di detassazione. Infine, è sempre più chiaro come il forte ricorso nell’ultimo quindicennio da parte delle imprese a rapporti di lavoro precari e la scarsa propensione che ne consegue a investire su queste risorse in termini di addestramento, formazione e “fidelizzazione”, vadano considerati tra i fattori di declino della produttività del lavoro in Italia. Una contrattazione della produttività non meramente nominalistica – come sempre più appare dall’analisi degli accordi sui sistemi premianti – deve quindi distinguere tra gli strumenti di flessibilità e selezionare quelli possibilmente in grado anche di ridurre l’assenteismo, i costi improduttivi dello straordinario, il ricorso a risorse marginali e meno efficienti. Quali sono questi strumenti?

Quali allora le flessibilità da incentivare?

In Italia, negli ultimi 20-25 anni, le risposte alle crescenti esigenze di flessibilità produttive imposte dalle tecnologie e dai mercati si sono concretizzate attraverso l’aggiunta di turni (rigidi), una flessibilità stagionale/multiperiodale limitata, un uso molto controllato (attraverso il regime dei “tetti”) del part time e, al contrario, una crescente permissività nell’uso degli straordinari. Complessivamente poca attenzione è stata riservata a un processo di vera e propria destandardizzazione dell’orario di lavoro, nel senso della introduzione accanto all’orario standard di regimi di orari diversificati sia in termini di numero di ore, sia in termini di loro collocazione nella giornata, nella settimana, nell’anno. Non avere avuto il coraggio di regolare in modo più ampio la flessibilità è stato uno sbaglio, sia nei confronti delle imprese che ne hanno un disperato bisogno, sia nei confronti delle persone che hanno visto sottovalutati i loro bisogni di conciliazione. Per esempio, il part time (forse sarebbe meglio dire: “orari ridotti”) non solo può rendere meno costose attività che richiedono un volume inferiore di ore giornaliere o coprire più efficientemente i picchi giornalieri nei flussi della clientela nelle attività terziarie e nei lavori amministrativi, ma può anche essere utilizzato nelle attività manifatturiere per espandere il volume della produzione quando non è necessario attivare un turno aggiuntivo completo, oppure per razionalizzare il processo produttivo con anticipi e posticipi giornalieri (part time mattutini, part time serali) e settimanali (part time week end), o anche per rispondere ad attività stagionali o periodiche pianificabili (il part time verticale). Al contempo, gli orari ridotti intercettano la domanda sociale di lavorare meno ore che proviene dai genitori di bambini piccoli, dagli studenti e dai lavoratori anziani. Oltre a far lievitare, come ci dicono le statistiche, la produttività oraria. Analogamente una flessibilità più ampia su base plurisettimanale – ovvero la possibilità di superare ma anche di ridurre l’orario giornaliero e/o settimanale – risponde ai picchi e ai cali delle produzioni senza aumentare l’orario medio lavorato (quindi riducendo il ricorso allo straordinario) ma anche, quando è concepita come simmetrica, risolve le esigenze personali di cura, di studio, di riposo, di salute e quindi ha un impatto positivo sull’assenteismo. In entrambi i casi, si tratta di quella “nuova organizzazione dell’orario che consente alle imprese di adeguare il capitale umano alle esigenze temporali imposte dall’attività economica” ma nel contempo anche “aumenta il grado di influenza che i lavoratori possono esercitare sull’orario”, come previsto da programma Europa 2020.
Per questo, a nostro giudizio, sono soprattutto gli orari ridotti e la flessibilità oraria – non gli straordinari – che andrebbero incentivati attraverso le forme di detassazione e decontribuzione che sono state chieste al governo dal recente Accordo interconfederale sulla Produttività .

L’Accordo interconfederale sarà veramente utile alla produttività solo se gli incentivi alla flessibilità saranno selettivi, i risultati misurabili, le competenze organizzative dei negoziatori all’altezza della sfida

L’accordo “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, firmato dalle associazioni datoriali e dai sindacati con esclusione della Cgil, ha il merito di segnalare l’importanza della contrattazione collettiva nel promuoverne la crescita della produttività e correttamente considera la contrattazione decentrata dell’orario come una delle leve più importanti per la realizzazione degli incrementi di produttività del lavoro. Non possiamo che essere d’accordo. L’auspicio è che, alla fine, non succeda – com’è finora accaduto – che siano proprio gli straordinari, e in generale, un’idea di flessibilità solo ai fini d’impresa, a godere dei benefici fiscali e contributivi.
L’accordo potrebbe fare ben di più: promuovere attraverso adeguati incentivi un percorso di messa a regime della flessibilità degli orari, che abbia il suo perno nell’aumento delle ore di flessibilità multiperiodale/ plurisettimanale a disposizione delle imprese e che aumenti nel contempo le ore (e le giornate) esigibili dai lavoratori. L’obiettivo potrebbe essere quello di realizzare una flessibilità oraria “di sistema” come quella negoziata negli accordi tedeschi ma anche in eccellenti accordi aziendali italiani (Zf, Italiana Assicurazioni, Endress-Hauser, Luxottica, Zanussi, Nestlé, Ferrero ed altri). E’ comunque utile sottolineare che l’organizzazione degli orari è una cosa estremamente complessa (come si è visto anche recentemente con il caso delle Ferrovie Nord!) e per negoziarla ci vogliono da una parte e dall’altra solide competenze, si deve procedere per sperimentazioni e messe a punto successive: questa può essere una delle ragioni per cui finora la flessibilità è stata spesso piuttosto subita che negoziata. Altre condizioni importanti sono la partecipazione dai lavoratori alla definizione dei sistemi e il costante monitoraggio dei risultati di produttività ottenuti.

Un’occasione per razionalizzare le normative sulla flessibilità presenti nei CCNL

L’applicazione dell’accordo interconfederale potrebbe costituire anche un’opportunità per rivedere e riordinare le normative sulla flessibilità oraria presenti nei diversi contratti di lavoro. Nella gran parte dei casi le norme sono troppe e mal integrate tra loro, perché sovrapposte in rinnovi contrattuali successivi. In particolare, gli istituti che regolano la flessibilità favorevole ai lavoratori (orari flessibili giornalieri, permessi, banca del tempo) sono trattati a parte rispetto a quelli che regolano la flessibilità favorevole all’impresa (straordinari di vari tipi, orari multiperiodali e/o plurisettimanali) e in questo modo ne è difficile l’utilizzo su un piano di scambio. I primi sono gravati da una serie di vincoli (“tetti”, tempi di preavviso, scadenze, “fasce massime”), i secondi accompagnati da una vera e propria giungla di maggiorazioni monetarie. Crediamo che risultati migliori, anche per le imprese, si possano ottenere integrando i due sistemi di flessibilità – in termini generali al livello del CCNL e più specifici al livello aziendale – e ottimizzando i vantaggi derivati dalla reciprocità, come già succede in altri Paesi: semplicemente un numero di ore flessibili “in su e in giù”, a disposizione dell’azienda e del dipendente, da portare in pari in un determinato intervallo (numero di ore e condizioni di utilizzo possono essere differenziati a seconda delle specificità aziendali/settoriali), affiancato da un numero contenuto di ore straordinarie, indennizzate, a disposizione per le effettive emergenze. Va parzialmente in questa direzione – anche se ancora senza affrontare direttamente l’integrazione delle normative – il recente rinnovo del CCNL metalmeccanici che prevede l’aumento delle ore di flessibilità su base plurisettimanale esigibili dalla imprese (da 64 ad 80), nello stesso tempo aumenta (da 6 a 8) i permessi/PAR a gestione individuale e, per la prima volta, introduce un criterio di esigibilità anche per i lavoratori stabilendo che i permessi dovranno essere concessi anche senza preavviso in caso di malattie dei figli e dei congiunti.