Sembra quasi una nemesi della storia l’elezione di Guglielmo Epifani alla segreteria del Partito democratico. E sì, perché il Pd voluto da Veltroni quale prodotto politico da laboratorio, una sorta di tardo-compromesso storico “bonsai” con l’incontro tra ex-comunisti e la filiazione popolarista degli ex-democristiani, ha rappresentato la negazione per la sinistra italiana di un approdo omologo al riformismo europeo che, come è noto, è segnato dal protagonismo dei partiti di ispirazione socialista, socialdemocratica o laburista.
In Italia no: pur di non ammettere che nel 1921, in occasione della scissione bolscevica di Gramsci, Togliatti e Bordiga voluta da Lenin, Filippo Turati era stato profetico sulle ragioni del socialismo democratico, come anni dopo Giuseppe Saragat nel 1947 a Palazzo Barberini, Pietro Nenni nei successivi anni ’60 con il centrosinistra e Bettino Craxi negli anni Ottanta con il “Nuovo corso socialista”, in Italia gli eredi del Partito comunista hanno generato, mettendo assieme Berlinguer, Kennedy e Moro, una sorta di homunculus che sembrava uscito dal Faust di Goethe.
E l’elezione di Epifani, con la sua storia di socialista riformista nonostante i soliti tentativi di Eugenio Scalfari di “manipolare” orwellianamente la storia (l’ex segretario della Cgil è stato sì sulle posizioni di Antonio Giolitti, ma dopo ha partecipato pienamente nel sindacato alla battaglia politica del riformismo craxiano), suggella il fallimento, politico e culturale del Pd e ribadisce il ruolo della tradizione socialista, sia sul piano ideologico che su quello delle classi dirigenti nel nostro paese.
Quasi simbolicamente, l’elezione di Epifani alla segreteria è avvenuta a qualche giorno di distanza dalla commemorazione dei 35 anni del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta: del leader democristiano cioè fautore dell’incontro tra cattolici democratici e comunisti per una nuova fase della vita politica italiana, che non ebbe luogo anche per quella che Enzo Bettiza rappresentò con la metafora dello “scarpone chiodato” dei socialisti infilato nella commessura dei due battenti del compromesso storico, che impedì la chiusura del portone oscurantista cattocomunista. Come dire che allora come oggi la sinistra italiana non può prescindere dal richiamo alla tradizione del socialismo europeo utilizzando scorciatoie politiche.
Intendiamoci: il tentativo di Epifani sarà segnato, in primo luogo, dall’esigenza di evitare la frantumazione del Pd, forse all’insegna del “primum vivere deinde philosophari”; ma non potrà sfuggire al tema del rapporto tra la creazione di una (vera) sinistra riformista in Italia, in grado, per dirla con un comunista illuminato come Napoleone Colajanni, di “non farsi irretire dal mercato”, e la cultura e i programmi del socialismo europeo e nazionale.
In questa prospettiva Guglielmo Epifani potrebbe riprendere quel campo di lavoro politico, rimasto incolto, e sostenuto da un altro ex comunista come Emanuele Macaluso, compagno e sodale delle battaglie riformiste di Giorgio Napolitano negli ultimi anni di vita del vecchio Pci, di un socialismo liberale, inclusivo e popolare, in cui potrebbero riconoscersi e convergere tutti coloro i quali credono nella costruzione di una grande casa comune della sinistra democratica in Italia.