Sulla Repubblica di stamattina Walter Veltroni, nel ribadire che “il Pd non è un partito socialista”, riconosce che di partiti socialisti in Italia “ne esiste uno, ed è composto da bravi riformisti” (non abbastanza bravi, peraltro, da meritare di essere preferiti a Di Pietro nella scelta delle alleanze elettorali del 2008). Poi però, polemizzando (giustamente) con chi si rifugia nella “più rassicurante autodefinizione di progressisti”, fra questi annovera esplicitamente Hollande ed implicitamente tutto il socialismo europeo.
E’ il caso quindi di ricordare che Schroeder non si è mai definito “progressista”, e non ha esitato a farsi nemici a sinistra per realizzare quelle riforme grazie alle quali oggi la Germania regge alla crisi; che Tony Blair non ha esitato a sfidare le Trade Unions; e che Papandreou (tanto per non citare solo casi di successo) non si è fatto paralizzare dal successo di Syriza per partecipare al salvataggio del suo paese.
Anche e soprattutto questa è la “vocazione maggioritaria” di cui parla (giustamente) Veltroni, che deve restare tale anche quando non si è maggioranza. Una vocazione che, se non vuole essere confusa con una più ambigua “vocazione egemonica”, comporta fra l’altro la necessità di sottoporre al giudizio dell’elettorato la leadership di governo: come non si fece (col dissenso di Veltroni) nel 1998, quando Prodi venne sostituito da D’Alema senza un passaggio elettorale; e come non si fece (per scelta di Veltroni) neanche nel 2001, quando venne candidato Rutelli invece del premier uscente Giuliano Amato.
L’impressione, insomma, è che per Veltroni i socialisti siano talmente “bravi riformisti” da dover essere custoditi sotto teca per evitare che si sciupino a contatto con l’aria; mentre all’aria aperta possono stare solo quanti coltivano il suo “sogno”, che peraltro non è neanche “il coronamento del sogno di Berlinguer e Moro”, come (giustamente) lui stesso sottolinea. Ed allora, a costo di trasformare in incubo il suo sogno politicamente corretto, sia consentito ricordare che altri sognarono qualcosa di simile prima di lui. Lo fece, alla fine degli anni ’60, Fernando Santi, che “nell’ambito della sinistra italiana” voleva unire “forze che si muovono in tutti i campi, in quello cattolico, in quello socialista, in quello comunista” per “creare una forza politica non egemonizzata da parte di chiunque”; e lo fecero anche Bettino Craxi e Claudio Martelli quando proposero di trasformare l’Internazionale socialista in Internazionale democratica, come ha più volte ricordato Enrico Morando.
Né Santi, né Craxi, né Martelli ebbero successo. Ma questo non è un buon motivo per eliminare la prospettiva del socialismo europeo dall’orizzonte del Partito democratico, o peggio per confonderla col “progressismo” di chi non vuole nemici a sinistra.