Su Scienza in Rete è  stato pubblicato un lungo documento dal titolo “Diamo un futuro alla ricerca scientifica in Italia” redatto dal Gruppo 2003 con lo scopo di indicare alcune priorità (10 punti) e chiedere ai partiti e movimenti di pronunciarsi su di esse. Il tema della ricerca non è particolarmente appealing e trova scarso spazio nelle campagne elettorali. Quindi tutto ciò che spinge a focalizzare l’attenzione è benvenuto. Purtroppo il documento del Gruppo 2003, pur contenendo alcune considerazioni condivisibili, ripropone le stesse vecchie ricette che hanno guidato la politica della ricerca in Italia negli ultimi anni. Non sorprende pertanto il rilancio del Corriere della Sera.
Il documento è molto disomogeneo: in alcuni punti (7-10) enuncia temi e contiene solo domande;  in altri (1-6) enuncia problemi, propone le soluzioni e formula domande in relazione a quelle soluzioni.
Il documento  parte dalla constatazione che non ci sono abbastanza risorse per la ricerca e propone un aumento del 20% annuo delle spese per ricerca e istruzione nei prossimi anni. Una proposta di questo tipo significherebbe portare la spesa ben oltre la media dei paesi OECD in soli tre anni. Condivisibile, ma quanto realistico?
Come si fa – si domandano quindi gli estensori – ad aumentare le risorse a disposizione, senza sprecare denaro? La ricetta è: valutazione e premialità. Il documento confonde sistematicamente valutazione ex ante dei progetti con la distribuzione delle risorse per l’ordinario funzionamento su base premiale. Tentiamo di separare le due questioni.
Per quanto riguarda il finanziamento ordinario gli estensori  riprendono l’argomento emergenziale più volte usato da ANVUR per giustificare la fretta di con cui è stato messo in piedi il raffazzonato e costosissimo esercizio VQR: stiamo distribuendo soldi sulla base dei vecchi dati CIVR che non rispecchiano la realtà. In particolare il Gruppo 2003 crede che in Italia il “10% o poco più” del finanziamento alle università sia stato distribuito sulla base dei parametri di valutazione Civr.  Niente di tutto questo. Sulla base dei risultati CIVR si sono distribuite soltanto briciole: nel 2011 solo l’1,58% del totale del FFO (109 milioni di Euro); il 2% circa nel 2009.
Le domanda corrette da rivolgere a chi si accinge a governare il paese sono le seguenti:

  1. intende il prossimo governo rivedere i meccanismi di distribuzione dell’FFO e se sì in che modo?
  2. ritiene il prossimo governo che i risultati dell’esercizio VQR (basato sulla bibliometria dei quadrati magici e governato da lobby di baroni selezionate dal ministro Gelmini) possano essere utilizzati credibilmente per distribuire le risorse? (Il mio voto non andrà a chiunque risponda sì a questa domanda.)

Veniamo ora al tema del finanziamento dei progetti. In Italia i fondi PRIN/FIRB sono distribuiti sulla base di procedure di peer review. Molte linee di finanziamento, ad esempio i progetti bandiera, sono sottratte invece alla gestione tramite peer review. I finanziamenti, come notano gli estensori al punto 4 del documento, sono dispersi tra molti ministeri in rivoli incontrollabili; aggiungerei: spesso sono concentrati in modo ingiustificato. Il problema è che dove è adottata la peer review sono in piedi regole del gioco così assurde da annullare gli effetti benefici della peer review iniziale (come negli ultimi due PRIN/FIRB gestiti dall’attuale ministro). Purtroppo la peer review non è una medicina miracolosa. Se la peer review non è inserita in processi di valutazione ben disegnati non serve a nulla.  E non è sufficiente dire: faremo un’agenzia che gestisca tutti i finanziamenti. Come l’esperienza ANVUR insegna, creare un’agenzia può essere un problema più che una soluzione. Allora le domande potrebbero essere riformulate:

  1. Si impegna il prossimo governo a far passare ogni euro dedicato al finanziamento di progetti di ricerca da bandi pubblici?
  2. Come intende coordinare il finanziamento della ricerca?

Gli estensori del documento sembrano avere in mente un sistema guidato da una “cabina di regia” con due teste: l’agenzia di finanziamento e l’ANVUR. Su quest’ultima il documento è stranamente reticente – forse perché alcuni degli estensori sono stati cooptati nei gruppi di valutazione vqr. In modo simile a quanto scritto nell’agenda Monti, gli estensori si limitano ricordare che ANVUR è di un progetto bipartisan (sic!), ed a chiedere: “come migliorerete l’attività dell’ANVUR?”. Purtroppo l’ANVUR, da elemento di speranza per tutti coloro che desideravano il rafforzamento del sistema italiano della ricerca, è diventato il problema principale. Ecco qualche domanda più interessante:

  1. Come intendete operare per rendere ANVUR indipendente dal controllo diretto del ministro?
  2. Come intendete riformulare le competenze ed i compiti dell’Agenzia di valutazione?
  3. Come intendete operare per limitare le delire bureacratique del sistema di valutazione della didattica  (AVA) preannunciato dall’attuale consiglio direttivo?

Al punto 3 gli estensori del documento propongono di selezionare un numero limitato di Atenei, dotarli di risorse adeguate e portarli al livello dei migliori ranking internazionali. Purtroppo su questo fronte abbiamo già sperimentato abbondantemente negli anni passati. E’ stato creato l’IIT, sono state create scuole speciali (SUM e altri). Con quali risultati? Siamo sicuri che questa sia la soluzione? Perché non ripartire invece da un’analisi preliminare che in questo paese nessuno ha mai fatto, dei punti di forza e di debolezza del sistema universitario e della ricerca italiano; delle specializzazioni e despecializzazioni relative? Rimango sempre molto colpito dal vedere le statistiche Scopus che ci dicono che abbiamo un sistema universitario che, malgrado tutto, è l’ottava potenza mondiale per produzione scientifica e citazioni. Siamo sicuri che ci sia da ripartire daccapo? In realtà un ventennio di disinformazione su università e ricerca ci ha impedito di capire se, dove e come funziona il sistema di ricerca e dell’Università italiana. Difficile prescrivere una cura, se non si è fatta la diagnosi. Sarebbe una grande soddisfazione sentirsi dire da qualcuno durante la campagna elettorale: “Non ho una ricetta miracolosa; ci prendiamo un anno per studiare e apriamo una grande discussione sul ruolo di ricerca ed università in questo paese”.

Il punto 5 è intitolato “Lacci e lacciuoli” e fa riferimento a quelli individuati dal CEPR,  nella sua precedente composizione – di cui facevano parte alcuni estensori – in un documento del 2011. Vi si legge:

“Un altro elemento di debolezza del nostro Paese agli occhi degli stranieri è la burocrazia eccessiva, pesante e lenta (in particolare i cosiddetti “lacci e lacciuoli”) la quale, invece di essere al servizio dell’individuo e aiutarlo nella vita di tutti i giorni, rappresenta un vero e proprio ostacolo alla sua attività. A ciò si aggiunge la barriera linguistica … e una struttura sociale che non facilita l’inserimento del ricercatore straniero e della sua famiglia …”. Ma chi potrebbe legittimamente difendere i lacci e lacciuoli?

Ovviamente, in un libro di vecchie ricette non poteva mancare l’abolizione del valore legale del titolo di studio e la conseguente competizione tra università: “L’abolizione del valore legale del titolo di studio aumenterebbe la competizione tra Università e produrrebbe un effetto benefico sulla qualità degli atenei e sulla loro produttività, innescando un circolo virtuoso.” Veramente noioso parlare per anni delle stesse cose. A mio giudizio il testo di riferimento per chiudere la discussione è questo, ma per gli amanti del genere su Roars si può leggere molto.
Concludo con un auspicio. Che dopo un ventennio di contumelie e denigrazioni, arrivi un po’ di vento dalla Francia, dove il libro bianco sull’università presentato il 15 gennaio 2013, preannuncia finalmente aria nuova: “Si tratta di passare da un modello di eccellenza attuato attraverso la competizione ad un modello di performance basato sulla cooperazione“. Anche in Italia servono ricette nuove.