Di recente, Jean Petitot, matematico e filosofo francese, è stato invitato dal Centro Einaudi a tenere una conferenza intitolata “La libertà e il liberalismo”. Della conferenza “Il Sole 24 Ore” ha pubblicato un estratto; la sua lettura, senza che sia necessaria quella del suo più ampio saggio “Per un nuovo illuminismo”, è sufficiente per apprendere che il matematico e filosofo francese ripropone, in termini da lui considerati auto-evidenti, la tradizionale vulgata del peggior liberalismo soggettivista. Per rendersi conto di ciò, è utile ripercorrerne l’esposizione, curando di soppesare le parole.

Per Petitot ci si deve chiedere perché sia tanto difficile accettare il liberalismo, soprattutto all’interno dei Paesi europei, che culturalmente hanno contribuito ad elaborarlo ed hanno nel contempo sviluppato e continuano a sviluppare motivi di critica, a volte radicale, nei suoi confronti. La critica e la diffidenza verso il liberalismo sarebbero però del tutto ingiustificate, se si considerasse che il suo valore starebbe nell’essere un metodo meta-politico e meta-culturale per “il problem solving tramite trial and errors”; ovvero un metodo che, al di là e al di sopra di ogni intenzionalità politico-culturale, consentirebbe di risolvere per tentativi successivi tutti i problemi del mondo (dall’ecologia, alla società ed all’economia).

Il maggior ostacolo alla comprensione del liberalismo, per Petitot, sarebbe di natura teorica, nel senso che la cultura europea non sarebbe stata e continuerebbe ancora ora a non essere in grado di capire, in particolare, il “modo in cui può funzionare un ordine complesso in una società auto-organizzata”; in altri termini, non avrebbe capito, e continuerebbe a non capire, che la complessità auto-organizzativa delle società sviluppate rende arcaiche altre due forme di organizzazione sociale: da una parte, l’organizzazione comunitaria, per cui ogni pretesa di un ritorno al comunitarismo sarebbe caratterizzata in senso regressivo; dall’altra, l’organizzazione costruttivista-razionalistica sul piano morale, politico, giuridico ed economico, per cui ogni pretesa di realizzare un’organizzazione sociale dirigista e centralista sarebbe anch’essa caratterizzata in senso regressivo. Entrambe le pretese sarebbero fondate, secondo Petitot, sulla mancata comprensione che la complessità auto-organizzativa dei sistemi sociali è di natura evolutiva, in un senso evoluzionista forte (quasi darwiniano), le cui strutture deriverebbero da un processo di selezione storico-culturale di regole di comportamento, di pratiche e di istituzioni, che sarebbe “impossibile ricostruire razionalmente in modo puramente concettuale”.

In conseguenza di tutto ciò, in una “società aperta e complessa”, Petitot sostiene che i saperi, le conoscenze e le competenze sono distribuiti tra tutti i componenti dell’organizzazione sociale in modo tale che risulta impossibile una loro centralizzazione. Ciò nonostante, la complessità auto-organizzativa metterebbe all’opera alcuni “meccanismi” imperscrutabili la cui natura impedirebbe ogni forma di controllo politico od economico; ogni tentativo effettuato in tal senso, perciò, sarebbe fondato su un “errore scientifico”.

Secondo il matematico-filosofo francese vi sarebbe anche di più. La complessità dell’organizzazione sociale imporrebbe anche alcuni limiti alla trasparenza di ciò che avviene nell’ambito della società, nel senso che la sua complessità renderebbe opaca la comprensione del suo funzionamento interno. E poiché la società è fondata sulla divisione del lavoro e del sapere, la sua opacità renderebbe impossibile ogni forma di comunicazione intersoggettiva consensuale, se non attraverso forme subdole di convincimento oppure coercitive, che concorrerebbero a fare violenza alla libertà dei singoli componenti la collettività. Per salvaguardare la libertà individuale e per coordinare i comportamenti individuali, occorre allora una forma particolare di circolazione della comunicazione tra i singoli soggetti; e l’auto-organizzazione risponde alla bisogna, rappresentando l’unico modo per creare un legame sociale fondato sulla “pluralità delle differenze individuali”, in quanto, attraverso il mercato, sostituisce “un’impossibile comunità di fini” con “una comunità di mezzi”. Ciò avverrebbe perché il mercato garantirebbe la cooperazione, nonostante la diversità degli interessi e della conoscenza dei fini. In questo senso, il mercato non esprimerebbe tanto uno strumento sottostante il funzionamento del sistema economico, quanto un modello universale efficace per comunicare le informazioni all’interno di un sistema complesso.

Come conseguenza del modo proprio di funzionare di un sistema sociale su basi auto-organizzative, le regole formali da adottare per il governo degli scambi e della circolazione dell’informazione devono essere necessariamente astratte e non finalizzate al perseguimento di una “volontà costruttivista sovrana”, sia essa espressa da un monarca assoluto, oppure dal popolo. La funzione dello Stato all’interno di una società governata democraticamente deve perciò essere quella di garantire, attraverso un sistema giuridico posto a salvaguardia, sia della logica auto-organizzativa socio-economica, sia della giustizia sociale, senza per questo che una ridistribuzione del prodotto sociale, decisa discrezionalmente da gruppi di potere opportunisti, significhi passare dall’auto-organizzazione dell’ordine spontaneo della società ad una società messa sotto tutela, con conseguente distruzione dei processi che sottendono l’ordine, la produzione di ricchezza e il benessere sociale.

Dopo aver esposto le virtù reali e potenziali del liberalismo, Petitot conclude affermando che il progressismo politico è regressivo perché cerca di “reprimere…le verità sistemiche sulla complessità dell’auto-organizzazione”. Al contrario, il “liberalismo democratico, fondato sul diritto, le scienze, le tecniche e l’economia di mercato”, costituisce un “metodo raffinato d’azione” prodotto solo dall’evoluzione socio-culturale. Ciò non impedisce che possa essere criticato, nella prospettiva di sostituirlo; ma può esserlo, solo a patto che questo nuovo metodo, fuori da ogni pretesa di palingenesi premoderne, corrisponda ad una migliore soluzione dei problemi. Sin tanto che non si arriverà alla “scoperta” di tale metodo alternativo, è lecito domandarsi, per Petitot, perché sia tanto difficile ammettere che il sistema sociale ed il sistema economico sono dotati dello stesso tipo di complessità auto-organizzativa.

Per il matematico-filosofo francese, la difficoltà a comprendere la reale funzione del liberalismo dal punto di vista economico starebbe nel fatto che i suoi critici sono sempre stati vittime della difficoltà teorica a comprendere che, “anche se sono apparentemente di origine culturale, i sistemi sociali ed economici moderni hanno le proprietà dei sistemi naturali, essendo per loro la tradizionale contrapposizione Natura/Cultura irrimediabilmente obsoleta”.

Oltre alla difficoltà teorica a coglierne la reale funzione, il liberalismo sconterebbe, da parte dei suoi critici, anche altre difficoltà di natura epistemologica ed ideologica. Sul piano epistemologico, i critici mancherebbero di comprendere il reale significato del principio che Bernard de Mandeville ha formulato nella sua celebre “Favola delle api”; secondo tale principio, com’è noto, i “vizi privati sono pubbliche virtù”, nel senso che è la ricerca della soddisfazione egoistica degli interessi individuali a stimolare lo sviluppo e la prosperità della società, poiché le motivazioni egoistiche individuali, mettendo in moto l’aumento dei consumi dei più ricchi, concorrerebbero a soddisfare anche gli interessi dei più poveri, facendo aumentare per essi le opportunità di lavoro. Nonostante l’ignoranza del principio della capacità auto-organizzativa del sistemi complessi, l’azione dei singoli soggetti condurrebbe inevitabilmente alla soddisfazione degli interessi dell’intera società, per cui qualsiasi tentativo di socializzare i fini individuali porta fatalmente a una tirannia, in quanto le intenzioni individuali non rientrano nel “gioco sociale”, essendo questo inintenzionale; in altre parole, perché l’interesse collettivo non “può collettivizzare intenzioni individuali”, non essendo possibile perseguirlo intenzionalmente.

Sul piano ideologico, i critici del liberalismo sbaglierebbero, invece, nel concepire il principio del “laissez.faire”; essi infatti lo interpreterebbero, non in termini auto-organizzativi, ma in termini “d’anarchia degli egoismi individuali”, trascurando la circostanza che la concorrenza, per via della logica auto-organizzativa del sistema economico, conduce sempre gli egoismi individuali ad essere “al servizio dell’interesse collettivo”. Sempre sul piano ideologico, i critici del liberalismo sbaglierebbero anche nel considerarlo connaturato alla società nata dalla rivoluzione industriale borghese del XIX secolo, mentre la società industriale moderna avrebbe preso dalla società nata dalla prima rivoluzione industriale sempre più le distanze; si tratterebbe, per Petitot, di un errore interpretativo che trarrebbe origine dal fatto che i critici mancherebbero di considerare il liberalismo come metodo astratto di soluzione dei problemi, infinitamente adattabile a qualsiasi tipo di società industriale, come sarebbe comprovato dalla circostanza che la società industriale attuale, quella delle nanotecnologie, delle biotecnologie, dell’informatica e dell’economia cognitiva non avrebbe nulla a che vedere con la precedente società industriale moderna (quella pre-fordista, tanto per intenderci). E’ questa forse l’osservazione di Petitot più rispondente al vero, visto che i “più militanti degli altermondisti” conducono la loro critica alla società industriale sulla base dei problemi di quella attuale, senza accorgersi che questi non hanno nulla o poco a che vedere con quelli delle società che l’hanno preceduta (quella borghese e quella pre-fordista). A parte quest’ultima osservazione, più o meno fondata, del matematico-filosofo francese, la sua esposizione apologetica del metodo del liberalismo solleva non poche perplessità, non solo di natura metodologica, ma anche di natura storico-cultura

Al fine di esporre con ordine tali perplessità, conviene prima riferire quelle relative alle presunte difficoltà che i critici del liberalismo troverebbero nel comprenderne la reale natura sul piano epistemologico ed ideologico; e successivamente riferire quelle relative alla presunta difficoltà che gli stessi critici troverebbero nell’accettarne la validità sul piano strettamente teorico.

Riguardo al principio che i vizi privati siano destinati a tradursi in pubbliche virtù, è sufficiente evocare l’aforisma di J.Kenneth Galbraith, secondo il quale nelle cosiddette società capitaliste ogni tanto succede qualche evento che serve a separare il denaro dagli “agenti ingenui”; nel senso che il libero mercato non sempre garantisce gli agenti onesti dagli esiti dei comportamenti degli “agenti imbroglioni”. All’interno dei mercati poco regolati e dominati dagli animal spirit di keynesiana memoria dei quali sono portatori gli “agenti imbroglioni” può accadere (come è accaduto nel caso della crisi recente del mercato immobiliare degli USA e ancora più recentemente nella crisi finanziaria dei Paesi europei a causa delle operazioni speculative condotte spregiudicamene sui titoli dei debiti sovrani) che il comportamento degli “agenti imbroglioni” separi i mezzi monetari dagli “agenti ingenui” col raggiro e la disonestà. Sino a che tutte le cause del cattivo funzionamento dei liberi mercati non saranno intenzionalmente rimosse, le crisi economiche, anziché contribuire a migliorare il funzionamento del mercato, serviranno a diffondere ulteriori motivi di crisi, per cui queste ultime si susseguiranno più frequentemente in forme sempre più gravi e dannose per i presunti “agenti ingenui”.

In secondo luogo, occorre osservare che se fosse vero che l’evoluzione del sistema sociale è inintezionale, per cui il suo cambiamento non può obbedire ad alcuna finalità, si dovrebbe malinconicamente accettare che il liberalismo, presentato come “metodo della libertà” a disposizione degli uomini per la soluzione dei loro problemi sociali, presuppone l’acritica accettazione di una società organizzata, non in termini di “regno della libertà”, ma in termini di “regno della necessità”; nel senso che gli agenti operanti all’interno della società organizzata dovrebbero subire gli esiti di un processo evolutivo senza tentare di porre rimedio razionalmente agli esiti indesiderati di tale processo. Ciò avverrebbe solo perché gli agenti sarebbero costretti ad accettarli, nella consapevolezza di doverli subire come conseguenza dell’operare di meccanismi fuori da ogni possibilità, non solo di conoscerli, ma anche di contrastarli, sia pure per tentativi successivi.

Riguardo allo sbaglio ideologico nel quale incapperebbero i critici del liberalismo nell’interpretazione del principio del “laissez-faire” in termini “d’anarchia degli egoismi individuali”, va osservato che, se l’organizzazione sociale deve essere fondata sull’adozione di un sistema di regole posto a salvaguardia della logica auto-organizzativa socio-economica e della giustizia sociale, gli animal spirit dei quali sarebbero portatori i singoli soggetti non offrirebbero alcuna via di scampo, né alla democrazia, né alla giustizia sociale.

Su quest’ultimo punto, l’esposizione apologetica che Patitot compie della logica auto-organizzativa della quale si avvarrebbe il sistema sociale, costituito solo da “angeli” anziché anche da “diavoli”, non tiene in alcuna considerazione le cause degenerative, dovute al comportamento scorretto degli “agenti imbroglioni”, sulla democrazia che il metodo del liberalismo avrebbe dovuto salvaguardare. I comportamenti disfunzionali rispetto ad un libero mercato, come ha dimostrato l’analisi condotta da pensatori di diverso orientamento culturale, quali Vilfredo Pareto ed Antonio Gramsci, hanno trovato l’ambiente ideale in cui potersi manifestare all’interno di un sistema economico pervaso dal principio del “laissez faire”, determinando un processo che ha originato il fenomeno della plutocrazia che è valso a provocare la degenerazione della democrazia; ciò perché il suo corretto funzionamento avrebbe presunto un equilibrio sul piano distributivo del prodotto sociale e poiché tutto questo non è accaduto, a causa degli animal spirit dei quali sono stati portatori i singoli agenti operanti nel sistema sociale, l’ordinamento democratico e l’ordinata evoluzione del sistema sociale sono stati spesso compromessi dall’assolutizzarsi della posizione di dominio dei plutocrati, con l’avvento a difesa dei loro esclusivi interessi di una qualche forma di “bonapartismo” o di “cesarismo”, negatrice sempre di ogni libertà.

Circa la difficoltà che i critici del liberalismo troverebbero nell’accettarne la validità sotto l’aspetto strettamente teorico, la tesi di Petitot è scorretta sul piano del metodo. Il matematico-filosofo francese rinviene la causa della mancata accettazione nel fatto che i critici del liberalismo non riuscirebbero a capire la natura evoluzionista forte della complessità auto-organizzativa dei sistemi sociali e di quelli eco0nomici, sino a rendere opaca la comprensione del loro funzionamento interno. Sulla natura evoluzionista della complessità auto-organizzativa dei sistemi sociali ed economici, Petitot è vittima dell’abuso del “discorso analogico”, tanto diffuso nel dominio delle scienze sociali.

Sin dalla sua prima formulazione, la teoria dell’evoluzione biologica è stata utilizzata per giustificare le conclusioni dello studio di alcuni aspetti della realtà sociale ed economica caratterizzati dalla contrapposizione conflittuale tra gruppi antagonisti. E’ quanto accaduto con riferimento allo studio dell’attività economica e della sua evoluzione nel tempo, che non a caso ha preso il nome di evoluzionismo economico, la cui espressione ha sempre avuto l’effetto di un’immediata evocazione dell’evoluzionismo biologico.

Per una robusta schiera di economisti, il comportamento economico dei gruppi sociali antagonisti sarebbe plasmato dalla dinamica delle “regole di condotta” apprese attraverso la trasmissione culturale; meccanismo, questo, che secondo alcuni sarebbe “casuale”, nel senso che le variazioni delle regole sarebbero l’esito della casualità storica. Quelle, tra tali variazioni, che riuscissero a conservarsi, deriverebbero la loro sopravvivenza alla selezione di quei gruppi sociali i quali, per averle adottate, hanno acquisito la capacità di imporre la loro superiorità inintenzionale sui gruppi meno dotati, realizzandosi con ciò la sopravvivenza dei gruppi sociali più adatti, perché più forti.

Sebbene l’idea dell’evoluzionismo economico derivi esplicitamente dal pensiero darwiniano per analogia, l’idea è tuttavia difficile da difendere sul piano logico; ciò in quanto, gli elementi che connotano l’evoluzionismo economico non sono comparabili con quelli propri dell’evoluzione biologica. E poiché le forze che determinano l’evoluzionismo economico non hanno equivalenti in quelle che determinano l’evoluzionismo genetico, l’insistenza sull’analogia delle due forme evolutive non può che servire ad “ovattare”, quasi a nascondere, la pretesa di fare dell’evoluzionismo economico la giustificazione della volontà degli agenti più forti, o degli “agenti imbroglioni”. L’uso strumentale dell’evoluzionismo biologico per spiegare l’evoluzione dei sistemi sociali e di quelli economici può quindi servire solo a chi intenda giustificare nei sistemi sociali industrializzati posizioni di dominio a scapito dei gruppi sociali più deboli, o dei presunti “gruppi sociali più ingenui”.

Fuori dall’idea che i sistemi sociali e quelli economici possano evolvere al sopra di ogni forma d’intenzionalità, cambia radicalmente il rapporto tra l’organizzazione della società o del sistema economico e gli agenti che in essi operano; nel senso che questi non sono solo il recapito passivo degli esiti dell’evoluzione del sistema sociale o del sistema economico. L’essere solo recapito passivo comporterebbe la deresponsabilizzazione degli agenti; e se ciò avvenisse, si dovrebbe concludere che il liberalismo implichi la rimozione di ogni forma di impegno razionale, individuale o di gruppo, nei confronti di ogni possibile status di ogni singolo sistema sociale o di ogni singolo sistema economico.

In realtà, la razionalità degli agenti consente la possibilità di porre in essere politiche attive nei confronti del processo evolutivo, alla sola condizione che tali politiche siano omogenee rispetto ad esso. Così operando diviene possibile, secondo le forme e le modalità di un sistema sociale o di un sistema economico governati democraticamente, il crescente coinvolgimento dei soggetti nel controllo della evoluzione dei fatti sociali e di quelli. Controllo che, reso possibile dal ruolo positivo che il quadro istituzionale di natura liberal-democratica, può svolgere nei confronti degli agenti consentendo loro di sovrintendere intenzionalmente all’ordinato svolgersi della dinamica sociale e di quella economica.

4. La critica condotta alla narrazione del liberalismo fattane da Petitot non vuole essere il rifiuto di un pensiero che, ereditato dall’Illuminismo, ha segnato l’inizio del riscatto degli uomini dal generalizzato stato di povertà in cui aveva vissuto sino ad allora la maggior parte dell’umanità. La critica vuole essere invece il rifiuto della maniera in cui è stato, in modo non del tutto disinteressato, interpretato e utilizzato il liberalismo per costruire un “paravento protettivo e giustificatorio” degli esiti riconducibili al funzionamento di un’istituzione del sistema economico, il libero mercato, che anziché tradursi in un vantaggio per tutti ha gratificato solo le aspettative di alcuni a danno degli altri. Perché è accaduto tutto ciò?

Una possibile risposta potrebbe consistere nell’osservare, che mentre il liberalismo progrediva, segnando l’avvento dello Stato di diritto e l’inizio della costruzione di un quadro istituzionale aperto alla progressiva realizzazione della democrazia nel governo del sistema sociale, non altrettanto avveniva con riferimento al sistema economico. Dal punto di vista di quest’ultimo, il liberalismo politico si traduceva nel liberismo, il quale altro non era che una derivazione riduttiva del primo; l’ignoranza di molti operatori economici, impegnati ad accumulare fuori da ogni riflessione teorica e culturale, ha giustificato il rifiuto di accettare le implicazioni del liberalismo politico nel mondo dell’economia.

E sebbene non siano mancati studiosi che hanno contribuito ad evidenziare in quale mondo l’umanità si accingeva ad entrare e quanto lusinghiere fossero le prospettive di un crescente affrancamento dal bisogno che le opportunità che stavano emergendo potevano assicurare all’intera umanità, non sono mancati anche quelli che, trascurando le implicazioni positive del liberalismo esteso al sistema economico, hanno costruito una spiegazione del funzionamento dell’economia uscita dai “secoli bui” assolutizzando la libertà posta a fondamento del mercato, giustificando in tal modo anche i comportamenti liberi e a volte scorretti degli operatori economici. Tali comportamenti, spesso azioni criminali sistemiche, sotto il velo della libertà, sono stati il “motore” che ha alimentato la propensione a soddisfare la loro auri sacra fames, senza che avvertissero alcun dovere morale, come sostiene Jeffrey Sachs nel suo ultimo libro “Il prezzo della civiltà”, di soddisfare il loro obbligo fiscale, in quanto unicamente motivati dall’avidità e dall’arroganza delle quali erano portatori.

Dopo la prima rivoluzione industriale, non era quindi necessario avanzare delle critiche anticapitaliste per intuire che, sulla base del liberalismo, era possibile sviluppare idee diverse da quelle liberiste, per immaginare e promuovere, come osserva Sylvia Nasar in “L’immaginazione economica”, sistemi sociali all’interno dei quali potessero funzionare liberi sistemi economici caratterizzati da una prospettiva di abbondanza per tutti, invece che da una prospettiva di abbondanza per alcuni (pochi) e di povertà o di permanente stato di bisogno per gli altri (molti).

Ciononostante, osserva la stessa Nasar, lo sviluppo della teoria economica ha svolto un ruolo importante ai fini della costruzione di un mondo in grado di concorrere realmente a riscattare l’umanità dallo stato di bisogno attraverso una generalizzata e condivisa giustizia sociale. Ciò, nella certezza che un’attività economica giustificata sulla base di soli fatti può solo portare al peggio e non al meglio; la mancata considerazione delle implicazioni connesse alla spiegazione teorica dei fatti economici, infatti, impedisce di interiorizzare la consapevolezza che una delle scoperte più radicali di tutti tempi nel progresso del pensiero economico è stata l’idea che l’uomo non è un prodotto delle condizioni materiali e che tali condizioni non sono predeterminate, immutabili o del tutto impermeabili ad ogni aspirazione al loro superamento. Quest’idea rivoluzionaria, lasciata in eredità dal liberalismo, radicandosi nella coscienza di tutti, ha messo in discussione la verità esistenziale che gli “uomini siano subordinati ai diktat di Dio e della natura”, concorrendo implicitamente ad affermare che “se dotata di nuovi strumenti, l’umanità può prendere in mano il proprio destino”.

Il desiderio di mettere l’uomo nella condizione di forgiare il proprio destino è stata, come ha sostenuto Alfred Marshall, la “molla principale di quasi tutti gli studi economici” e molti economisti del suo tempo, ispirati dai grandi progressi che le scienze naturali avevano potuto realizzare dopo essersi liberate dalle catene dei secoli bui, hanno incominciato a forgiare uno strumento (la teoria economica) con cui analizzare l’”ingegnosissimo e potentissimo meccanismo sociale” che stava “creando un’opulenza materiale non solo mai vista prima, ma anche una straordinaria ricchezza di nuove opportunità”. Un tale meccanismo sociale, cioè l’ideale organizzazione di un libero sistema economico inquadrato all’interno di un libero sistema politico, era destinato, sia pure in prospettiva, a cambiare la vita di tutti gli abitanti del pianeta. Restava, tuttavia, un problema irrisolto, che John Maynard Keynes ha successivamente designato come “il problema politico dell’umanità”, riguardante il modo in cui combinare l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale.

Anche per la soluzione di questo problema non è mancato il contributo del pensiero economico, con l’elaborazione delle modalità utili a dare corpo all’idea di una giustizia sociale realizzata nel rispetto dei principi di efficienza e di libertà individuale. Quest’idea, prospettata e teorizzata inizialmente in termini potenziali, si è diffusa in tutto il mondo, fino ad avviare un processo che ha iniziato, e continua ancora, a trasformare i sistemi sociali di tutto il pianeta.

I pensatori economici, quindi, sotto la diretta influenza del liberalismo, sono sempre stati motivati, non solo dalla curiosità intellettuale, ma anche e forse soprattutto dal desiderio di trasformare gli uomini in artefici del proprio destino”; in altri termini, dal desiderio che le loro idee potessero essere usate per promuovere sistemi sociali caratterizzati “dalla libertà individuale e dall’abbondanza invece che dalla rovina morale e materiale”.

Come lo stesso Keynes pensava, lo sviluppo della teoria economica ha potuto così trasformarsi in “un motore d’analisi in grado di separare il grano dell’esperienza dalla pula”, convinto che le “idee economiche avessero trasformato il mondo più del motore a vapore”. Per tutte le ragioni esposte, contro ogni interpretazione riduttiva del liberalismo in senso liberista, è quindi necessario far tesoro del pensiero economico, considerandolo come uno strumento per realizzare, dopo averlo immaginato, un futuro migliore del mondo attuale, prima che i suoi rudi costruttori, come ha osservato Lucio Villari, lo distruggano, in nome di una crescita senza limiti e regole per una presunta civiltà del benessere.